in tema di responsabilità dell’ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, inquadrabile nella responsabilità contrattuale, è a carico del danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica o dell’insorgenza di nuove patologie, nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.

 

Tribunale Firenze, Sezione 2 civile Sentenza 14 settembre 2018, n. 2363

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Susanna Zanda ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. r.g. 5482/2015 promossa da:

Ro.Tr. (…), con il patrocinio dell’avv. RO.MA. e dell’avv., elettivamente domiciliato in Indirizzo Telematico presso il difensore avv. RO.MA.

ATTORE/I

contro

AZIENDA OSPEDALIERA SAN GIOVANNI DI DIO (C.F.),

Be.Pa. e dell’avv. DA.MA. (…) PIAZZA (…) 50122 FIRENZE;, elettivamente domiciliato in STRADA (…) 53100 SIENA presso il difensore avv. Be.Pa.

CONVENUTO/I

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato Tr.Ro. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze l’Azienda Usl 10 di Firenze, al fine di sentirne dichiarare la responsabilità sanitaria del personale dell’ospedale con riferimento alla lesone all’integrità fisica derivante dalla prestazione sanitaria.

In particolare ha esposto:

– in data 6.06.2006 Tr.Ro. – a seguito di riscontro della sindrome da immunodeficienza acquisita (HIV) – iniziava una cura sperimentale presso l’Ospedale Santissima Annunziata in Firenze; nel corso della sperimentazione il Tr. accusava sintomi da controindicazioni rispetto ai farmaci utilizzati nella cura, manifestando la comparsa di numerose complicanze.

– Dopo circa un anno, a seguito di importanti perdite ematiche, il Tr. veniva sottoposto presso l’ospedale di Careggi ad intervento chirurgico ed usciva così dal protocollo di sperimentazione; dietro suggerimento del personale medico dell’Ospedale Santissima Annunziata, il Tr. rientrava nel protocollo e, tuttavia, le sue condizioni fisiche peggioravano tanto da rendere difficoltosa anche la deambulazione.

– Stante la gravosa situazione e l’accanimento medico nel continuare il protocollo di sperimentazione nonostante le numerose problematiche insorte, il Tr. provvedeva a presentare formale denuncia presso la Guardia di Finanza di Firenze.

– Nel 2009, a causa della persistenza di tale sintomatologia, il Tr. si recava più volte al pronto soccorso dell’Ospedale San Giovanni di Dio, ove veniva rassicurato dal personale medico in merito alla correttezza della procedura adottata e alla stabilità delle proprie condizioni.

– Successivamente, a seguito di numerosi esami, veniva rilevata la presenza di una placca che ostruiva l’arteria femorale, provocandogli gravi problemi vascolari.

– Soltanto in data 10.09.2009, il Tr. veniva sottoposto ad un primo intervento chirurgico, eseguito dal Dott. Credi Giovanni, che prevedeva l’inserzione di uno stent all’interno dell’arteria femorale al fine di dilatare l’arteria stessa il cui volume era sensibilmente ridotto dalla stenosi, al termine del quale seguivano le dimissioni del paziente.

– Dopo circa un mese veniva fissato il primo controllo post-operatorio, in occasione del quale veniva rilevato dai sanitari l’ottimo posizionamento dello stent ed un normale decorso di guarigione, nonostante il Tr. accusasse già forti dolori ad entrambe le gambe.

– Sebbene il paziente avesse rappresentato ai sanitari i persistenti sintomi anche nell’ulteriore controllo, eseguito nel giugno 2010, egli veniva tranquillizzato del fatto che l’intervento fosse andato a buon fine e che i dolori in questione – rientranti nel normale decorso di guarigione – si sarebbero man mano attenuati.

– Nonostante le continue rassicurazioni da parte del personale medico e stante l’aggravarsi dei sintomi, il Tr. si vedeva costretto a recarsi sempre più spesso al pronto soccorso dell’ospedale di Torregalli, ove veniva nuovamente ricoverato e dimesso dopo pochi giorni con prescrizione di diversi farmaci. Stante il peggioramento delle condizioni del Tr., in data 6.03.2012 quest’ultimo veniva sottoposto ad un secondo intervento per tentare un cateterismo omerale sinistro ecoguidato; a causa dell’insuccesso di tale pratica i sanitari tentavano, con esito negativo, di raggiungere la zona d’interesse attraverso l’accesso dall’arteria del braccio sinistro; seguivano le dimissioni del paziente con una diagnosi di “stenosi serrata iliaca est destra e ostruzione della comune sinistra “.

– Dopo circa un mese, a causa di una seria difficoltà di deambulazione, il Tr. tornava nuovamente presso l’ospedale di To., ove veniva sottoposto ad ulteriori accertamenti diagnostici ai quali faceva seguito un terzo intervento; nonostante l’esito positivo dell’operazione, la terapia mantenuta per circa 72 ore; non riusciva a “sciogliere” il trombo interessato e, solo in tale occasione, veniva riscontrata una difficoltà di circolazione arteriosa dovuta al mal posizionamento dello stent inserito nell’arteria femorale con il primo intervento; veniva inoltre riferito al paziente che, allo stato dei fatti, era impossibile intervenire per risolvere il problema e che un eventuale peggioramento avrebbe potuto comportare l’amputazione della gamba sinistra.

– Stante la sussistenza di forti dolori e difficoltà motorie anche alla gamba destra, il Tr. decideva di rivolgersi all’ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato al fine di sottoporsi al medesimo intervento chirurgico; l’operazione, diversamente da quelle subite sull’arto sinistro, andava a buon fine.

– Tuttavia, dati gli innumerevoli interventi a cui il Tr. era stato già sottoposto, gli veniva comunicata l’impossibilità di sottoporre ad intervento chirurgico anche la gamba sinistra.

– In data 3.05.2012 e 07.05.2012 il Tr. presentava rispettivamente esposto all’URP dell’Azienda sanitaria in Firenze presso la struttura San Salvi e formale querela relativamente ai fatti de quibus davanti al Comando dei Carabinieri di Firenze.

– In data 19.03.2010 il Tr. veniva sottoposto a visita medica INPS, a seguito della quale veniva accertata una percentuale di invalidità pari all’80% in relazione alla riduzione della capacità lavorativa, atteso che a causa dei numerosi interventi subiti lo stesso si vedeva costretto ad abbandonare la sua attività lavorativa di operaio.

In data 22.10.2012 il Tr. provvedeva ad inoltrare, a mezzo di legale rappresentante, lettera raccomandata all’Azienda sanitaria di Torregalli, con la quale veniva richiesto un incontro al fine di visionare tutta la certificazione medica. Stante la mancata risposta da parte dall’ente ospedaliero, il Tr. provvedeva ad a instaurare procedimento di mediazione presso la Camera di Commercio in Firenze; a causa dell’esito negativo del tentativo di negoziazione esperito, il Tr. si vedeva costretto ad agire in via processuale.

In merito all’an debeatur l’attore ha dedotto come per l’evento lesivo de quo sussisterebbe una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c tanto in capo al personale medico – sanitario e alla struttura sanitaria; infatti, nel caso di specie, data la natura dell’errore commesso e l’omissione dei provvedimenti più opportuni, il danno derivato all’attore sarebbe stato provocato da un comportamento negligente ed imprudente, in quanto l’occlusione dello stent non sarebbe stata prontamente e adeguatamente rilevata dai sanitario durante gli innumerevoli accessi al pronto soccorso né durante le visite presso la struttura sanitaria, bensì tardivamente nel 2012 quando ormai nessun intervento risolutivo era più possibile. Inoltre, per quanto attiene al consenso informato, l’attore ha dedotto come i moduli che sono stati sottoposti al paziente e fatti da lui sottoscrivere sarebbero modelli generici che non rilevano né le singole specificità del caso né le possibili complicanze dell’operazione.

Per quanto attiene al quantum debeatur, l’attore ha sostenuto come a seguito dell’evento lesivo per cui è causa sia derivato al medesimo un danno non patrimoniale per completa ostruzione dello stent nell’arteria femorale con conseguente difficoltà di deambulazione e sindrome ansiosa – depressiva, nonché un danno morale/esistenziale per tutte le sofferenze patite in seguito all’esito negativo dell’intervento con incidenza sulle vita dinamico – relazionale; dal fatto illecito de quo sarebbe derivato altresì al Tr. un danno patrimoniale da lucro cessante, in quanto quest’ultimo non è più in grado di svolgere alcuna attività lavorativa.

Con comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata si è costituita in giudizio l’Azienda Usl di Firenze eccependo preliminarmente la nullità dell’atto di citazione per genericità della domanda, in quanto l’attore non avrebbe provveduto ad allegare alcun inadempimento qualificato della struttura sanitaria che ha preso in cura il Tr.

Nel merito la convenuta ha asserito l’infondatezza delle pretese attoree, adducendo come non sussisterebbe nel caso di specie alcuna responsabilità dei sanitari intervenuti nella cura del paziente e conseguentemente il fatto lesivo per cui è causa non sarebbe imputabile alla struttura sanitaria.

Il personale dell’Azienda sanitaria convenuta avrebbe infatti adottato l’opportuna diligenza e perizia del caso, nel rispetto dei protocolli sanitari, e non risulterebbe invero alcuna difettosa esecuzione nell’inserimento e mal posizionamento dello stent nell’arteria femorale.

A giustificazione di eventuale complicanze, la convenuta ha sostenuto come il paziente presentasse una struttura gravemente compromessa a seguito della pregressa patologia e come dunque il grave problema agli arti inferiori non potrebbe ricondursi ad imperizia dell’equipe medica ma costituirebbe invero un’usuale progressione sfavorevole della malattia in un soggetto sieropositivo.

Per quanto concerne il consenso informato, la convenuta ha dedotto come il consenso prestato dal Tr. sarebbe stato adeguatamente raccolto attraverso moduli in dotazione della Struttura sanitaria e debitamente firmato dal paziente adeguatamente informato su ogni aspetto.

Per quanto attiene al quantum debeatur, l’Azienda convenuta ha addotto come controparte non avrebbe provveduto a fornire nessuna prova né alcun parametro su cui fondare le somme richieste a titolo di danno non patrimoniale e come, in merito all’asserito danno da perdita di capacità lavorativa, non abbia altresì assolto l’onus probandi in ordine agli elementi costitutivi di tale fattispecie.

La causa è stata istruita a mezzo di prove documentali nonché mediante CTU medico – legale e, previa concessione dei termini per il deposito di comparse conclusionali e breve discussione orale all’udienza del 22.05.18, è stata spedita in decisione nelle forme di cui all’art. 281 quinquies, comma 2, c.p.c.

Tanto premesso, la domanda attorea è risultata infondata per i motivi di seguito esposti:

– in via preliminare appare opportuno rilevare come, secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, la struttura sanitaria pubblica o privata che – nell’adempimento della propria obbligazione – si avvale dell’opera di esercenti la professione sanitaria risponde a titolo di responsabilità contrattuale, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle condotte dolose o colpose degli stessi (v. Cass. Sez. III civ., sent. n. 2117/2015, Cass. Civ., sent. 26.6.2012 n 10616; Cass. civ., sent. 28.8.2009, n. 18805; Cass. SU, sent., 11.1.2008 n. 577; Cass. SU, sent., 1.7.2002 n. 9556).

Tale responsabilità – che ha natura concorrente e solidale rispetto a quella del singolo medico – si fonda sulla circostanza che l’accettazione del paziente in ospedale, finalizzata al ricovero o a visite ambulatone, comporta la conclusione del c.d. “contratto di spedalità”, che ricomprende tanto prestazioni di carattere medico – sanitario quanto prestazioni accessorie.

Sul piano della ripartizione dell’onus probandi ne consegue, ai sensi dell’art. 1218 c.c., che il danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria è tenuto a fornire la prova del contratto con la struttura ed allegare l’inadempimento dei singoli medici, consistente nell’aggravamento della patologia o nell’insorgenza di complicanze a seguito dell’intervento eseguito; grava altresì sul danneggiato l’onere di allegare l’astratta idoneità dell’inadempimento a provocare, quale causa efficiente, il danno dedotto in giudizio.

Invero, incombe sulla struttura convenuta l’onere di provare la scusabilità della condotta del personale sanitario, dimostrando che la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (sul punto v. Cass. civ., sez. III, sent. n. 17573, 18 luglio 2013: “Nei giudizi di risarcimento del danno da attività medico – chirurgica l’attore deve provare l’esistenza del contratto, o il contatto sociale, ed allegare l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e l’inadempimento qualificato del medico, inadempimento che deve essere a provocare (..) il danno lamentato. Rimane invece a carico del medico la dimostrazione che non vi è stato inadempimento oppure che, anche se vi è stato, non si è trattato della causa del danno (…)”; v. altresì Cass. civ., Sez. I, sent. 11 luglio 2012, n. 11642; Cass. civ., Sez. m, sent. 4 dicembre2011,n. 27000).

La struttura sanitaria convenuta è dunque tenuta a dimostrare che non vi è stato inadempimento da parte del personale dipendente o che il mancato/inesatto adempimento è dipeso da una causa non imputabile alla condotta dei singoli medici, in quanto determinato da circostanza indipendente dalla sua volontà o non prevedibile né prevenibile; per soddisfare tale onore probatorio occorre dunque dimostrare che la prestazione sanitaria è stata eseguita secondo diligenza, conformemente alle linee guida operanti nello specifico ambito medico di riferimento. (v. Cass. civ. sent. 975/2009 “in tema di responsabilità dell’ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, inquadrabile nella responsabilità contrattuale, è a carico del danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica o dell’insorgenza di nuove patologie, nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile”; sul punto v. altresì Cass. civ., sent. n. 18341/2013 e 20294/2013).

Nel caso di specie, se da un lato l’attore ha soddisfatto l’onus probandi in ordine all’esistenza del rapporto di cura nonché l’onere di allegazione dell’inadempienza del personale medico – sanitario astrattamente idonea a porsi come causa o concausa del danno lamentato, dall’altro lato l’Azienda ospedaliera convenuta ha provveduto a provare la non imputabilità in concreto dell’inadempimento alla condotta dei sanitari.

Infatti sebbene l’attore abbia dedotto, quale inadempimento del personale dell’Ospedale San Giovanni di Dio, il malposizionamento dello stent (inserito nell’arteria femorale nel corso dell’intervento di angioplastica dell’arteria iliaca sx eseguito dal Dott. Credi) nonché la superficialità dei sanitari nell’effettuare le successive visite di controllo e nel sottovalutare i sintomi lamentati dal Tr., dalle risultanze istruttorie è emerso come l’aggravamento post – operatorio delle condizioni di salute di quest’ultimo non sia ascrivibile ad una condotta negligente/imperita del personale medico bensì al pregresso quadro clinico del paziente; infatti, già prima di sottoporsi al primo intervento chirurgico presso la struttura convenuta, il Tr. era affetto da HIV e presentava inoltre altri fattori considerati predisponenti a patologie circolatorie, quali il tabagismo, le dislipidemie (ipercolesterolemia e ipertrigliceridimia) e la lue.

Invero, come ha rilevato il CTU Dott. Pi.Fe., l’intervento di posizionamento di stent “ha apportato un miglioramento della sintomatologia locale del paziente (tramite una idonea rivascolarizzazione) per oltre due anni, vale a dire sino alla retrombosi indotta dall’HIV e dalla scelta di sospendere le terapie oltre che dalla persistenza nell’abitudine del tabagismo.” (v. relazione CTU Dott. Pi. p. 77).

Dalla CTU medico – legale è emerso altresì come il personale medico – sanitario dell’Azienda ospedaliera convenuta abbia sempre adottato procedure diagnostico – terapeutiche conformi ai protocolli e alla prassi scientifica e come, per quanto attiene all’intervento eseguito in data 10.09.2009, non sia riscontrabile alcun errore tecnico nella relativa esecuzione (v. CTU Dott. Pi. p. 78: “Esistevano, nel caso di specie, protocolli diagnostico – terapeutici oltre a Linee Guida e a pratiche elaborate dalla Comunità Scientifica nazionale ed internazionale cui si ritiene che i sanitari si siano fedelmente attenuti. Nello specifico è possibile affermare che tutte le procedure diagnostico – terapeutiche furono del tutto rispondenti alle Le.”).

Da ciò si evince come, a differenza di quanto dedotto dall’attore, la condotta posta in essere dal personale medico non sia censurabile sotto il profilo di negligenza/imperizia, avendo i sanitari adottato procedure sia astrattamente corrette che concretamente adeguate al caso di specie; dalla relazione del CTU Dott. Pi. è emerso invero come l’aggravamento della sintomatologia del paziente a seguito del primo intervento eseguito dal Dott. Credi sia verosimilmente dipeso, in conformità allo standard probatorio del “più probabile che non”, da circostanze non imputabili al personale medico in quanto costituente un rischio insito nel normale processo degenerativo delle patologie dalle quali era già affetto l’attore (v. relazione ausiliario CTU Dott. Lo. P. 56: “Per valutare la grave vasculopatia sofferta dal Sig. Tr. bisogna considerarne le caratteristiche, le cause e le comorbilità esistenti. Innanzitutto la AOCP oggetto di causa, presenta caratteristiche differenti da quelle più conosciute e più frequenti, divenendo specifica per la principale comorbilità in atto, vale a dire l’HIV; anzi, probabilmente non è corretto considerare l’HIV come comorbilità, invece che causa dell’AOCP stessa.”).

Dalle risultanze probatorie è emerso, quindi, come il peggioramento delle condizioni cliniche generali del paziente sia correiabile ad una pluralità di fattori patogeni favorenti l’insorgere di complicanze cardiovascolari, quali la sieropositività HIV, la sifilide “secondaria” – malattia venerea contratta in precedenza dal paziente ed avente notoriamente effetti sull’apparato vascolare – nonché infine l’insorgenza di un carcinoma rettale (v. relazione ausiliario CTU Dott. Lo. p. 62: “Quindi, si ritiene che la AOPC nel caso di specie sia correlata ed influenzata dalla sieropositività HIV del Paziente e che la recidiva occlusiva, dimostrata circa 28 mesi dopo il posizionamento dello stent nell’arteria iliaca sinistra, sia riconducibile al ben conosciuto quadro trombofilico HIV-correlato ed alle incongrue scelte terapeutiche autonomamente assunte dal Paziente; si ricorda che gli Infettivologi del Careggi riferirono che il Sig. Tr., da loro preso in carico nel Dicembre 2011, affermò di aver sospeso tutte le terapie antivirali da oltre 1 anno e che i Chirurghi Vascolari del San Giovanni di Dio scrissero, il 9/12/2012, che il Paziente affermava di non aver assunto la terapia specifica antiaggregante e vasoattiva, da loro prescrittagli. Come se non bastasse, è opportuno ricordare che il Sig. Tr. era stato anche affetto da una sifilide “secondaria” (diagnosticata cioè dopo la fase primaria della comparsa della lesione mucosa/cutanea o ulcera sifilitica, in una fase più tardiva, con manifestazioni cutanee generalizzate; tale malattia venerea è risaputo poter avere effetti patologici sull’apparato vascolare e nervoso (inducendo in primis aneurismi aortici”); inoltre, come ha rilevato il CTU Dott. Pi., nel caso di specie la recidiva occlusiva è altresì riconducibile all’autonoma ed incongrua scelta del Tr. di sospendere le terapie prescrittegli (v. CTU p. 74: “A questo proposito si ritiene opportuno sottolineare come il Sig. Tr. abbia deciso di cambiare la scelta dei reparti di Malattie Infettive più volte (…)abbandonando le terapie praticate e rimanendo – anche per lunghi periodi -“scoperto” della indispensabile terapia antivirale (salvavita), con ovvi peggioramenti clinici e sierologici (…)”; v. altresì p. 79:” Peraltro, il caso del Sig. Tr., vuoi per le patologie in atto, vuoi per la scarsa compliance del paziente (autosospensione e rifiuto di terapie), presentava profili di particolare complessità.”).

Inoltre, non sussistendo un nesso eziologico tra il peggioramento delle condizioni del paziente e la condotta dei sanitari, il danno biologico derivato al Tr. non è imputabile all’Ente convenuto e non è dunque suscettibile di liquidazione/risarcimento in questa sede. (v. CTP p. 78:”Conseguentemente non si ritiene necessario né possibile stimare la durata di una inabilità temporanea assoluta e/o parziale attribuibile alle allegate condotte colpose dei sanitari, di fatto assolutamente insussistenti. Analogamente non esistono esiti di carattere permanente né limitazioni della capacità lavorativa da attribuirsi all’operato dei sanitari che ebbero in cura, a vario titolo, il Sig. Tr.”).

Infine, è da ravvisarsi la sussistenza del consenso informato del paziente in ordine a tutti i trattamenti/interventi cui è stato sottoposto, dal momento che il personale medico – sanitario ha sempre provveduto adeguatamente a rendere edotto il Tr. in merito alle cure e agli interventi proposti nonché ad aggiornarlo circa l’evoluzione del proprio quadro clinico (v. CTU p. 79: “Anche in merito al consenso, la documentazione presente in atti porta ad affermare come il paziente sia stato sempre adeguatamente informato circa i trattamenti proposti, effettuati nonché rifiutati o interrotti. Peraltro, il Sig. Tr. risulta esser stato costantemente aggiornato circa l’evoluzione del suo quadro clinico e le possibilità di eventuali successivi trattamenti”).

Per quanto attiene alle spese di giudizio, considerata la complessità del quadro patologico del Tr. e la conseguente difficoltà nel discernere i fattori solo astrattamente idonei a causare esiti peggiorativi nel paziente da quelli aventi effettiva incidenza eziologica in ordine all’evento lesivo de quo, interpretando l’art. 92, comma 2, c.p.c. secondo la ratio legis, si ritiene opportuno disporre la compensazione al 50% delle spese.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

Rigetta la domanda dell’attore;

compensa le spese legali al 50% e per l’effetto condanna l’attore a rimborsare alla convenuta il residuo 50% che liquida in Euro 4500,00 oltre accessori di legge.

Pone le spese di ctu a carico delle parti al 50% ciascuna, secondo la liquidazione di cui al decreto in corso di causa.

Così deciso in Firenze il 13 settembre 2018.

Depositata in Cancelleria il 14 settembre 2018.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.