In tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete.

Tribunale|Modena|Sezione L|Civile|Sentenza|14 aprile 2020| n. 103

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MODENA

SEZIONE LAVORO

Il Tribunale di Modena, in persona del Giudice del Lavoro dott. Vincenzo Conte, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di I grado iscritta al N. 1450/2018 R.G.

promossa da

(…) – C.F.: (…) – residente a M., via I. n. 6 (V.), rappresentata e difesa dagli Avv.ti Er.Gi. e Ra.Be.;

RICORRENTE

contro

COOP. (…) SOCIETA’ COOPERATIVA, – P. IVA: (…) – in persona del procuratore speciale, dr. (…), con sede legale in C., Fraz. V. (B.), via (…), rappresentata e difesa dagli Avv.ti Gi.Io. e Sa.Cr.;

RESISTENTE

Avente ad oggetto: licenziamento per giusta causa – insubordinazione – eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ.

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Fase Sommaria

1.1. Con ricorso ex art. 1, comma 48 L. n. 92 del 2012, (…) riferiva che:

– il 06.12.1999 veniva assunta da Coop. E. con contratto di formazione e lavoro – orario part-time di 1250 ore annue (24 ore settimanali) – come impiegata di 4 livello e con mansioni di “addetta operazioni ausiliarie alla vendita” presso l’ipermercato “(…)” di Modena, rapporto convertito a tempo indeterminato a decorrere dall’1/10/2001;

– nel mese di maggio del 2012 Coop. E. le assegnava orari di lavoro non compatibili con le mansioni di cassiera (dalle 20;00 alle 24;00; dalle 05;00 alle 11;00; dalle 05;00 alle 08;00), nonché turni domenicali e festivi non conformi al contratto di lavoro e alle previsioni del CCNL;

– la datrice di lavoro richiedeva, “per impegnare le ore del turno in cui l’ipermercato non era aperto …, lo svolgimento di attività “superflue”, quali i report e la sistemazione delle ricariche telefoniche, ovvero mansioni “dequalificanti”, come la raccolta e la sistemazione in appositi contenitori dei dispostivi antitaccheggio, non solo della sua cassa, ma di tutte le casse dell’ipermercato”;

– tali incombenze erano incompatibili con il proprio stato di salute (spondiloartropatia cervicale e lombare con bulding discale C5, C6 e L4-l%, nonché radiculopatia C7-C8-T1 e sindrome del tunnel carpale dx) e non rispettavano le prescrizioni del medico competente (evitare la movimentazione manuale di carichi con indice di sollevamento Niosh superiore a 0,5);

– l’attività di raccolta e sistemazione dei dispostivi antitaccheggio era da considerarsi “demansionante (facchinaggio), se svolta per oltre la metà dell’orario di lavoro e su tutte le postazioni casse, come nel caso de quo”; detti compiti richiedevano “piegamenti della schiena e sollevamenti ripetuti molte volte”;

– con lettera del 30.06.2015 la convenuta formulava diverse contestazioni per insubordinazione; all’esito del procedimento disciplinare irrogava due ore di multa;

– analoghe contestazioni venivano formulate con missiva del 25.07.2015; la datrice di lavoro applicava la sanzione della sospensione dal servizio per due giorni;

– con lettera di addebito del 09.02.2016, Coop. (…) (subentrata a Coop. E.) avanzava la seguente contestazione disciplinare: “… nella giornata del 18 gennaio Lei era di servizio nel turno compreso fra le ore 20,00 e le ore 24,00. La sig.ra (…) caporeparto Ristoro, durante il giro di verifica in area vendita, iniziato alle 23, l’ha vista seduta su una sedia senza fare nulla e Le ha quindi chiesto se avesse ricevuto incarichi da svolgere durante il tempo del turno a negozio chiuso.

Lei ha risposto negativamente e Le ha chiesto se qualcuno l’avesse informata di qualcosa al riguardo. La collega Le ha ribadito che voleva solo sapere se il capo reparto Le avesse dato qualche incarico. Almeno dalle ore 23,00 e sino al termine del turno, peraltro, Lei è stata vista del tutto inoperosa presso la postazione centrale di “Spesa e via” dove ha passato il tempo a leggere. Per chiarezza precisiamo che le mansioni da svolgere nei turni interamente o parzialmente da svolgersi a negozio ricariche, nonché la raccolta dei dispositivi antitaccheggio, Le sono state indicate come mansioni da svolgersi in via generale da molto tempo dalla sig.ra (…).

Il giorno 21/1/2016, Lei ha telefonato in cassa centrale alla caposquadra (…) per riferirle che era al corrente delle indicazioni date sul lavoro da svolgere a negozio chiuso sia a Lei che alla collega (…), ma che non aveva intenzione di toccare l’antitaccheggio.

Durante tale turno, Lei ha inizialmente aiutato la collega G., come del resto Lei stessa riferisce nell’email 28/1/2016 alla mail indirizzata a (…), (…), (…), (…), Direzione Territoriale del lavoro, Prefettura di Modena, Procura della Repubblica di Modena per lamentare l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione di due giorni. Tuttavia verso le ore 23,00 ha cessato qualsiasi attività ed è rimasta seduta su una sedia presso la postazione centrale di “Spesa e Via” sino al temine del turno. La condotta contestata costituisce recidiva delle contestazioni in data 30 giugno e 27 luglio 2015 …”;

– la resistente non accoglieva le giustificazioni scritte (cfr. mail del 14.02.2016) e intimava il licenziamento per giusta causa in data 08.03.2016;

– il 18.01.2016, dopo aver terminato le attività richieste dalla datrice di lavoro (assistere i clienti alla postazione “Spesa e via”, sistemare i report delle ricariche e i dispositivi antitaccheggio), prendeva “visione degli opuscoli per aggiornarsi, stante la sua attività alle casse, delle nuove promozioni e dei nuovi sconti applicati ed ha semplicemente risposto alla domanda rivoltale dalla sig.ra (…) (capo reparto Ristoro) che non aveva avuto ulteriori indicazioni in quel contesto”;

– il 21.01.2016 non si rendeva inadempiente alle direttive aziendali, posto che alle 22;45 (circa) telefonava “alla sua caposquadra per avere istruzioni su cosa avrebbe dovuto fare ulteriormente, visto che aveva terminato di assistere i clienti presso la postazione “Spesa e via” e stava terminando di “ordinare” le ricariche telefoniche, oltre che aiutare la collega, sig.ra (…)”;

– non poneva in essere le condotte contestate in data 30.06.2015 e in data 25.07.2015; in ogni caso era da considerarsi legittimo il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti e lesive della propria salute, stante il principio enunciato dall’art. 1460 cod. civ.

Ciò premesso in fatto, la ricorrente chiedeva annullarsi il licenziamento per insussistenza del fatto contestato (o, in subordine, perché sproporzionato) e, per l’effetto, condannarsi la convenuta a reintegrarla nel posto di lavoro e a versare l’indennità risarcitoria ex art. 18 L. n. 300 del 1970, nella misura delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali di legge.

1.2. Coop. (…) contestava le domande attoree e deduceva che:

– nel maggio 2014 (…) rifiutava ogni modifica del suo orario di lavoro, “sia circa la modularità annuale, sia circa modifiche bisettimanali eventualmente proposte”, pertanto l’azienda era costretta ad applicare gli orari concordati nel dicembre 2011;

– tutte le cassiere svolgevano le operazioni di incasso e di “sistemazione dei report o i controlli sulle tessere telefoniche o ancora la sistemazione dell’antitaccheggio, delle shoppers e conta delle medesime, sistemazione espositore”;

– alla ricorrente venivano assegnate le predette mansioni, in conformità a quanto stabilito dall’art. 45 (par. 144) del CCNL, “da ritenersi del tutto marginali rispetto alla attività di cassiera in senso proprio cui continuava ad essere adibita per la maggior parte del suo orario di lavoro”;

– (…) non rispettava le direttive aziendali e poneva in essere gli atti di insubordinazione contestati con le missive del 30.06.2015, 25.07.2015 e 09.02.2016;

– le mansioni assegnate alla lavoratrice non erano dequalificanti, poiché gli addetti alle operazioni ausiliarie di vendita erano tenuti a svolgere le attività di sistemazione degli espositori delle ricariche virtuali e dei biglietti expo, la raccolta dell’antitaccheggio e l’inventario delle shoppers;

– la raccolta degli antitaccheggio non danneggiava la salute della ricorrente.

1.3. Il ricorso veniva rigettato con ordinanza ex art. 1, comma 47 L. n. 92 del 2012 del 12.10.2018 e (…) veniva condannata a rifondere le spese di lite.

2. Fase di opposizione

2.1. (…) proponeva opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92 del 2012 e instava per la riforma dell’ordinanza pronunciata in data 12.10.2018; essa richiamava le doglianze della fase sommaria e chiedeva annullarsi il licenziamento per insussistenza del fatto contestato (o, in subordine, perché sproporzionato) e, per l’effetto, condannarsi la convenuta a reintegrarla nel posto di lavoro e a versare l’indennità risarcitoria ex art. 18 L. n. 300 del 1970, nella misura delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali di legge.

2.2. Coop. (…) si opponeva alle domande attoree e ribadiva le deduzioni esposte nella memoria difensiva della fase sommaria, contestando gli ulteriori profili di illegittimità del recesso denunciati in sede di opposizione.

2.3. Sull’illegittimità del licenziamento

2.3.1. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale che questo giudice condivide, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

Anche nel caso in cui la disciplina del contratto collettivo preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, occorre comunque valutare, ex art. 2119 cod. civ., l’effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto. La previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non è vincolante, essendo sempre necessario verificare se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 cod. civ. e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore.

Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso e tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 cod. civ., cosicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ex art. 3 L. n. 604 del 1966 o addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto ex art. 2119 cod. civ.

(da ultimo Cass. civ. sez. lav., n. 6498/12). Per tutte Cass. n. 26679/2017: “Per giustificare la giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve quindi risultare idonea a incidere sulla fiducia del datore di lavoro e a far ritenere la prosecuzione del rapporto pregiudizievole per gli interessi aziendali” (Cass. Sez. lavoro, 10/10/2017, n. 23697; Cass. Sez. lavoro, 12/10/2017, n. 24014). Dunque per valutare la legittimità del licenziamento è necessario accertare se: 1) la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore; 2) l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulti giustificata solamente in presenza d’un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o, comunque, di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. civ., sez. lav., n. 4060/11; Cass. civ., sez. lav., 30/09/2013, n. 22321).

La nozione di giusta causa non appare incisa dalla recente riforma dell’art. 18 L. n. 300 del 1970, così come la valutazione della proporzionalità fra inadempimento addebitato al lavoratore e sanzione irrogata che, anzi, ora rileva non solo per la valutazione della stessa giusta causa – in sé considerata – ma anche al fine di graduare la sanzione prevista dalla norma. Se anche la disciplina collettiva prevede un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, deve comunque essere verificata l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore (Cass. civ., sez. lav., n. 11846/09), poiché è pur sempre necessario che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (Cass. civ., sez. lav., n. 4435/04) e ciò a maggior ragione se manca una precisa corrispondenza tra i fatti addebitati e le ipotesi specifiche elencate dal contratto collettivo (Cass. civ., sez. lav., n. 13983/00).

L’art. 5 della L. n. 604 del 1966 pone inderogabilmente a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.

E’, dunque, la parte datoriale a dover dimostrare il fatto ascritto al dipendente, sia con riferimento all’elemento materiale che con riferimento a quello psicologico (Cass. Sent. n. 7830 del 29.03.2018; Cass. Sez. L, Sent. n. 17108 del 16/08/2016).

2.3.2. Con lettera del 09.02.2016 Coop A. 3.0 ha contestato a (…) – inquadrata nel V livello del CCNL, con mansioni di addetta alle operazioni ausiliarie alla vendita (cfr. contratto di assunzione dell’1.10.2001) – la seguente infrazione disciplinare: “… nella giornata del 18 gennaio Lei era di servizio nel turno compreso fra le ore 20,00 e le ore 24,00. La sig.ra (…) caporeparto Ristoro, durante il giro di verifica in area vendita, iniziato alle 23, l’ha vista seduta su una sedia senza fare nulla e Le ha quindi chiesto se avesse ricevuto incarichi da svolgere durante il tempo del turno a negozio chiuso. Lei ha risposto negativamente e Le ha chiesto se qualcuno l’avesse informata di qualcosa al riguardo.

La collega Le ha ribadito che voleva solo sapere se il capo reparto Le avesse dato qualche incarico. Almeno dalle ore 23,00 e sino al termine del turno, peraltro, Lei è stata vista del tutto inoperosa presso la postazione centrale di “Spesa e via” dove ha passato il tempo a leggere. Per chiarezza precisiamo che le mansioni da svolgere nei turni interamente o parzialmente da svolgersi a negozio chiuso, e precisamente la sistemazione dei report e delle ricariche, nonchè la raccolta dei dispositivi antitaccheggio, Le sono state indicate come mansioni da svolgersi in via generale da molto tempo dalla sig.ra (…). Il giorno 21.01.2016, Lei era di servizio nel turno compreso fra le ore 20,00 e le ore 24,00. Verso le 22,45, Lei ha telefonato in cassa centrale alla caposquadra (…) per riferirle che era al corrente delle indicazioni date sul lavoro da svolgere a negozio chiuso sia a Lei che alla collega (…), ma che non aveva intenzione di toccare l’antitaccheggio.

Durante tale turno, Lei ha inizialmente aiutato la collega (…), come del resto Lei stessa riferisce nell’email 28.01.2016 alla mail indirizzata a (…), (…), (…), (…), Direzione Territoriale del lavoro, Prefettura di Modena, Procura della Repubblica di Modena per lamentare l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione di due giorni. Tuttavia verso le ore 23,00 ha cessato qualsiasi attività ed è rimasta seduta su una sedia presso la postazione centrale di “Spesa e Via” sino al temine del turno.

La condotta contestata costituisce recidiva delle contestazioni in data 30 giugno e 27 luglio 2015 …”.

Esaminate le giustificazioni scritte della lavoratrice, inviate con mail del 14.02.2016, la datrice di lavoro ha intimato il licenziamento per giusta causa con missiva dell’8.03.2016: “… E’ ben comprensibile che la capo reparto (…) Le abbia chiesto (la sera del 18 gennaio 2016) se Lei aveva ricevuto incarichi da svolgere, posto che l’ha vista seduta ed inoperosa presso la postazione centrale “Spesa e via”, Lei ha risposto di no, ed aggiunge nelle giustificazioni “in quel contesto”, fingendo di ignorare che Lei ha ricevuto da molto tempo dalla sig.ra M. l’istruzione in via generale di svolgere,, durante i turni da svolgersi totalmente o parzialmente a negozio chiuso, la sistemazione dei report e delle ricariche, nonché la raccolta dei dispositivi antitaccheggio.

Atteso che queste sono le direttive e non è necessario che al dipendente vengano ripetute tali direttive se non in presenza di una situazione particolare che comporti di derogare alla normalità (e ciò non è avvenuto nella serata del 18 gennaio) risulta confermato l’addebito consistente nel non aver svolto attività lavorativa. Tale non può considerarsi la lettura degli opuscoli sulle promozioni, che Lei afferma come scusante dato che in primo luogo ciò non ci risulta e secondariamente perché le nuove scontistiche e promozioni sono inserite nei programmi di gestione delle casse ed appaiono automaticamente al passaggio dei beni acquistati.

Quanto all’episodio del 21 gennaio Lei riferisce alla caposquadra (…) frasi che in realtà ha detto Lei. Ci risulta confermato che Lei ha preso l’iniziativa di telefonare alla caposquadra e Lei ha detto alla (…) che ben sapeva quali erano le istruzioni sul lavoro da svolgere, ma che Lei non aveva alcuna intenzione di toccare l’antitaccheggio.

E’ ancora provato, e da Lei stessa confermato (vedi mail 28.01 citata nelle contestazioni) che Lei fino alle 23 ha aiutato la collega (…), ma che dalle 23,00 ha cessato di svolgere qualsiasi attività fino al termine del turno. Richiamate dunque le contestazioni 30/6 e 27/7 del tutto simili a quelle del gennaio 2016, ritenuto che Lei stessa afferma che non si sarà alcuna rassegnazione ma ribellione di fronte alle “ingiustizie” … si ritiene che la reiterazione dei comportamenti inadempienti ed in contrasto aperto con le direttive ricevute abbia definitivamente leso l’affidamento nella correttezza delle future prestazioni. Le viene pertanto applicata la sanzione del licenziamento per giusta causa, pertanto il rapporto di lavoro cessa con il ricevimento della presente …”.

Coop A. 3.0 ha posto a fondamento del provvedimento espulsivo due episodi di insubordinazione, commessi il 18 e il 21 gennaio 2016, valutati quali recidive delle infrazioni disciplinari del 30 giugno 2015 e del 27 luglio 2015, sanzionate rispettivamente con due ore di multa e con due giorni di sospensione (cfr. Provv. del 24 luglio 2015 e del Provv. 2 settembre 2015).

2.3.3. L’istruttoria orale ha confermato la ricostruzione della resistente. I testimoni hanno riferito che (…) non ha rispettato le direttive impartite dai responsabili di Coop. (…), rifiutando di svolgere le attività cd. “accessorie”, quali l’applicazione dell’antitaccheggio, la sistemazione degli espositori delle ricariche e dei biglietti expo, la raccolta degli antitaccheggio e l’inventario delle shoppers.

I testi (…) (dipendenti di Coop. (…)) hanno confermato le inadempienze del 14, 20, 22, 25, 28 maggio e del 4, 6, 18, 22 giugno 2015, oggetto della contestazione di addebito del 30.06.2015.

(…) ha dichiarato: “cap. 18: è vero il 22.05.2015 ho chiesto alla ricorrente di svolgere le mansioni indicate nel capitolo di prova. Adr: tutte le cassiere svolgono anche le funzioni di cancelleria, cioè rifornire le casse del materiale di cancelleria.

Anche la dipendenti cd. “(…)” svolgevano le funzioni di cancelleria. Le “(…)” sono delle cassiere.

cap. 19: è vero (…) si è rifiutata di svolgere i compiti indicati nel capitolo 18, dicendo che spettavano ai “(…)”.

cap. 20: confermo le circostanze dei capitoli di prova. (…) mi ha detto avrebbe fatto solo i report e le ricariche virtuali.

cap. 30: è vero, il 29.06.2015 (…) si rifiutata di svolgere l’attività che le veniva chiesta (espositori, antitaccheggio, ricariche telefoniche e biglietti expo)”.

(…) ha riferito: “cap. 12: è vero, dal maggio 2014 è stato chiesto alla signora (…) di occuparsi anche delle attività di sistemazione dei reports, delle ricariche telefoniche e delle shoppers e inventario di quest’ultime.

cap. 13: è vero il 14.05.2014 ho chiesto alla signora (…) di effettuare l’inventario delle shoppers.

cap. 14: confermo. (…) mi ha chiesto di formalizzare l’ordine per iscritto ma io le ho detto che tale disposizione di servizio poteva anche essere data oralmente.

cap. 25: il 28.05.2015 ho chiesto a (…) di farsi assistere dalla ricorrente nell’attività di svuotamento della paytower (cassa automatica). La mattina stessa ho verificato se l’attività era stata fatta ma (…) mi ha detto che non aveva svolto il compito perché non voleva assumersi alcuna responsabilità.

cap. 27: confermo le circostanze del capitolo di prova. Il 06.06.2015 si è rifiutata di fare l’antitaccheggio. Adr: io sapevo che (…) aveva delle prescrizioni, ma l’attività di raccolta dell’antitaccheggio rientrava nell’ambito della prescrizione in quanto l’attività non era ripetitiva e le scatole sono vuote e non pesanti. Adr. le scatole si trovavano nelle casse ed erano circa dieci. Le scatole sono posizionate per terra. Adr: per la raccolta dei chiodini dell’antitaccheggio 8applicati agli abiti) sono posizionati ad altezza uomo.

cap. 29: confermo la circostanza del capitolo di prova.”

E.M. ha dichiarato: “cap. 17: è vero, insieme a P.A. abbiamo detto a (…) di sistemare tutti i biglietti dell’espositore expo, tutte le ricariche virtuali telefoniche e di raccogliere i dispositivi antitaccheggio e antitaccheggiare le shoppers. (…) ci ha augurato buona giornata in modo ironico e non ha eseguito nessuna delle cose che le avevamo detto di fare. E’ rimasta seduta in cassa a non fare niente.”

(…) ha dichiarato: “cap. 21: non ricordo il giorno preciso. Ricordo che era il maggio 2015 perché era il periodo dell’expo e alla ricorrente veniva chiesto di sistemare i biglietti expo. Però confermo di aver detto a (…) di raccogliere i report delle casse e di fare l’antitaccheggio.

cap. 22: è vero, (…) ha rifiutato di svolgere le attività richieste.

cap. 23: confermo la circostanza del capitolo di prova. (…) ci ha detto che avrebbe raccolto i chiodini e le palette del tessile delle casse solo se ne aveva voglia. E comunque si rifiutava sempre di fare queste attività. E’ vero alle 22.25 (…) non aveva ancora raccolto i report delle casse.

cap. 26: confermo. Ho chiesto a (…) di raccogliere i dispositivi antitaccheggio e di riporli nell’apposito contenitore ma lei si è rifiutata di farlo ed è rimasta inattiva a non far nulla.

cap. 28: è vero, ho chiesto a (…) di sistemare i biglietti expo ma lei si è rifiutata di farlo rimanendo a leggere i volantini pubblicitari dell’ipermercato.

Adr: (…) non faceva mai quello che le veniva richiesto.”

Risultano provate anche le infrazioni disciplinari del 29.06.2015 e del 02.07.2015, così come riportate nella contestazione di addebito del 27.07.2015. Il teste (…) ha dichiarato: “cap. 30: è vero, il 29.06.2015 (…) si rifiutata di svolgere l’attività che le veniva chiesta (espositori, antitaccheggio, ricariche telefoniche e biglietti expo)”; il teste M. ha riferito: “cap. 31: è vero, il 02.07.2015 ho chiesto a (…) di sistemare gli espositori ma il compito non è stato eseguito dalla ricorrente”.

Dalle deposizioni testimoniali emerge che (…) ha omesso di svolgere la raccolta dell’antitaccheggio nei giorni 18 e 21 gennaio 2016, disattendendo le direttive impartite da (…) e (…) (cfr. dichiarazioni (…) e (…)).

Il teste (…) (responsabile del personale di Coop. A.), richiamando le testimonianze delle altre lavoratrici, ha confermato che “(…) non svolgeva le attività che le venivano richieste”. Il teste (…) ha aggiunto che “(…) non faceva mai quello che le veniva richiesto”.

Le dichiarazioni dei testimoni sono precise e univoche e non sono smentite da evidenze di segno contrario; la difesa attorea non ha allegato fatti o circostanze che ne inficiano la genuinità, né sono emerse ragioni di contrasto tra la ricorrente e i testi. Come ha ben chiarito la Suprema Corte, “la valutazione in ordine all’attendibilità di un teste deve avvenire soprattutto in relazione, al contenuto della dichiarazione e non aprioristicamente per categorie, in quanto in quest’ultima ipotesi il giudizio sull’attendibilità sfocerebbe impropriamente in quello sulla capacità a testimoniare in rapporto a categorie di soggetti che sarebbero, di per sé, inidonei a fornire una valida testimonianza, laddove la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza delle dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite” (Cass. sez. lav. 21 agosto 2004 n. 16529).

La ricostruzione emersa dall’istruttoria trova riscontro nel comportamento della stessa lavoratrice. Negli scritti difensivi del 07.07.2015 e dell’11.08.2015 (…) non ha negato i fatti contestati (inottemperanza alle direttive aziendali), prospettando, in modo generico, danni alla salute e comportamenti demansionanti della datrice di lavoro; essa non ha neppure impugnato i provvedimenti sanzionatori del 24.07.2015 e del 02.09.2015.

2.3.4. Parte attrice invoca l’eccezione inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 cod. civ.; essa afferma che il rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa è da considerarsi legittimo, in quanto la datrice di lavoro ha assegnato mansioni dequalificanti e incompatibili con il proprio stato di salute.

L’eccezione non è meritevole di accoglimento.

L’art. 1460 cod. civ. dispone che “nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”.

Nei contratti a prestazioni corrispettive una parte può rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 cod. civ. soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte. Il rifiuto della prestazione lavorativa costituisce una legittima forma di autotutela a fronte di un inadempimento datoriale che comprometta i beni personali del lavoratore (vita e salute) (cfr. Cass. 30/11/2016 n. 24459; Cass. 19/01/2016 n. 831; Cass. 07/05/2013 n. 10553).

Secondo il consolidato insegnamento del giudice di legittimità, l’adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita consente al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente – senza un eventuale avallo giudiziario – di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli (cfr. Cass. 29.1.2013, n. 2033; Cass. 20.7.2012 n. 12696; Cass. 19.12.2008 n. 29832; Cass. 5.12.2007 n. 25313).

Recentemente la Suprema Corte ha statuito che “il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi senza avallo giudiziario di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, o che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo” (Cass. Sez. L, Sent. n. 836 del 16/01/2018; nello stesso senso Cass. Sez. L, Sent. n. 12696 del 20/07/2012).

L’allegazione relativa alla dequalificazione professionale è generica, in quanto l’attrice non ha indicato le norme del CCNL violate.

In ogni caso, non sussiste il demansionamento denunciato dalla ricorrente. Le mansioni “accessorie” assegnate da Coop. A. sono sussumibili nel IV livello del CCNL, inquadramento acquisito dalla lavoratrice dopo diciotto mesi. L’art. 45 – par. 144 riconduce nel IV livello i lavoratori addetti alle operazioni ausiliarie alla vendita, “intendendosi per tali l’esercizio promiscuo delle funzioni di incasso e relative registrazioni, di preparazione delle confezioni, di prezzatura, di marcatura, di segnalazione dello scoperto e di rifornimento merci dei banchi o scaffalature, di movimentazione fisica delle merci”.

I compiti in esame (riordino depliant, riviste, ricariche telefoniche e shoppers; sistemazione dell’antitaccheggio; raccolta dei dispostivi antitaccheggio; rifornimento della cassa con materiale di cancelleria) rientrano tra le mansioni dei cassieri. Trattasi di attività complementari e accessorie a quelle del profilo assegnato, funzionali ad una ordinata gestione della cassa e non del tutto avulse dalle operazioni di incasso, come potrebbero essere le attività di pulizia dei locali.

Le operazioni di sistemazione e rifornimento degli espositori e quelle di raccolta dell’antitaccheggio sono strettamente correlate alle attività di incasso, considerata anche la prossimità fisica tra le casse e gli oggetti da movimentare, posto che i contenitori e gli espositori sono collocati a fianco o sotto le casse stesse.

Ulteriore conferma si rinviene nel fatto che tutti i cassieri di Coop. (…) svolgono le predette attività, come riferito dal teste (…): “cap. 9: le addette alla cassa si occupano anche della sistemazione dei report e delle ricariche telefoniche; però capita che per mancanza di tempo le cassiere non riescano a riposizionare le ricariche nell’apposito espositore. Adr: solitamente il riposizionamento delle ricariche viene eseguito da un addetto del reparto cassa, che di volta in volta viene incaricato. Adr: è capitato che qualche volta l’incarico di sistemazione delle ricariche sia stato affidato a (…). cap. 11: un addetto del reparto casse si occupa della raccolta e sistemazione dei dispositivi antitaccheggio. Adr: l’addetta al reparto casse è una cassiera. Adr: tali attività non vengono svolte da personale dipendente diverso da quello addetto alla cassa.”

Né vi è prova in atti che altri lavoratori abbiano avanzato doglianze analoghe a quelle della ricorrente o che le organizzazioni sindacali abbiano sollevato contestazioni e rivendicazioni in ordine a tale aspetto del rapporto lavorativo.

Si osserva, infine, che le locuzioni “rifornimento merci dei banchi o scaffalature” e “movimentazione fisica delle merci” non vanno interpretate in senso restrittivo, ben potendo essere ricondotte ad esse le operazioni di approvvigionamento dei ripiani adiacenti alle casse e quelle di movimentazione di oggetti diversi dalle merci in vendita, quali depliant, riviste, ricariche telefoniche e antitaccheggio.

L’esegesi prospettata dalla difesa attorea conduce a risultati incongrui e paradossali, dal momento che gli addetti alle operazioni ausiliarie di vendita potrebbero “movimentare merci” e “allestire scaffali” e non rimuovere o spostare i dispositivi antitaccheggio riversati nei contenitori delle casse dopo le operazioni di incasso. Del resto, la stessa attrice riconosce che la raccolta dell’antitaccheggio “può considerarsi attività accessoria, se svolta dalla cassiera per quanto riguarda la propria cassa”.

Il citato art. 45 prevede che le funzioni di cassa e quelle “ausiliarie” siano svolte in modo promiscuo. Ebbene, dall’istruttoria orale non è emerso che (…) sia stata esclusa dalle operazioni di incasso e adibita in via esclusiva (o in misura prevalente) alle attività di antitaccheggio e sistemazione degli espositori. La circostanza dedotta dall’attrice non trova riscontro nelle deposizioni testimoniali.

Dalle contestazioni disciplinari e dalle dichiarazioni dei testi si ricava che i compiti “accessori” venivano assegnati prima dell’apertura del supermercato e dopo la chiusura della cassa, tra le ore 22;30 e le ore 24;00. Tali operazioni non occupavano l’intero orario di lavoro della ricorrente, ma porzioni marginali e residuali dell’orario settimanale (24 ore), come attestato dai prospetti dei turni di lavoro (cfr. prospetto del 06.12.2011). (…) lavorava, di regola, durante l’orario di apertura al pubblico (dal lunedì al venerdì dalle 09;00 alle 22;00 e il sabato dalle 09;00 alle 21;00) e solo sporadicamente espletava il turno dopo la chiusura del supermercato.

Si appalesano insussistenti le deduzioni relative al pregiudizio alla salute. Non vi sono evidenze per affermare che le mansioni di cassiera e quelle di raccolta dell’antitaccheggio abbiano generato o aggravato pregresse patologie. Le consulenze mediche della dott.ssa (…) non sono idonee a provare la correlazione causale tra menomazioni fisiche e mansioni espletate in quanto risalenti nel tempo (la prima del 02.08.2007 e la seconda del 30.06.2009); la ricorrente non ha prodotto documentazione medica di recente formazione o perizie medico-legali attestanti la genesi e l’attualità della malattia. La CTU espletata in altro procedimento ha smentito le allegazioni del perito di parte, tanto che con sentenza n. 224/2014 il Tribunale di Modena ha rigettato la domanda risarcitoria formulata da (…) nei confronti di Coop. (…) (circostanza pacifica).

Né risulta in atti che la convenuta abbia disatteso le prescrizioni del medico competente, il quale ha dichiarato (…) idonea alla mansione con divieto di sollevare oggetti con indice di Niosh superiore a 0,5. La ricorrente movimentava e raccoglieva oggetti leggeri (es. placche antitaccheggio) per poche ore alla settimana e non in modo continuativo, come confermato dal teste (…): “io sapevo che (…) aveva delle prescrizioni, ma l’attività di raccolta dell’antitaccheggio rientrava nell’ambito della prescrizione in quanto l’attività non era ripetitiva e le scatole sono vuote e non pesanti. Adr. le scatole si trovavano nelle casse ed erano circa dieci. Le scatole sono posizionate per terra. Adr: per la raccolta dei chiodini dell’antitaccheggio (applicati agli abiti) sono posizionati ad altezza uomo.” Nel giudizio definito con sentenza n. 224/2014, il CTU ha riscontrato che le mansioni assegnate dalla datrice di lavoro erano compatibili con le prescrizioni del medico competente (circostanza dedotta a pagina 3 della memoria difensiva e non contestata dalla ricorrente).

Anche gli accertamenti peritali eseguiti nel giudizio di opposizione hanno escluso l’origine professionale della patologia al rachide lombosacrale. Il dott. (…) ha riferito che “non sussistano fondati motivi per poter affermare che l’attività svolta dalla signora (…) di raccolta dei dispositivi antitaccheggio sia stata idonea ad arrecarle pregiudizio alla salute, rilevando come depongano in tal senso sia la particolare modestia della patologia sofferta sia il limitato impegno temporale dell’attività lavorativa in questione con ampio margine di variabilità all’interno di quell’orario sia infine l’oggettivo scarso peso – singolo e complessivo – del materiale da raccogliere. Di particolare suggestione, pur non costituendo criterio dirimente nella discussione del caso de quo, appare al CTU il dato anamnestico supportato dalle dichiarazioni della signora che ella non ha mai assunto alcun farmaco per contrastare la sintomatologia dolorosa da lei lamentata”.

L’ausiliario del giudice ha adottato un metodo di indagine serio e razionale, provvedendo ad accertamenti dettagliati e approfonditi. Trattasi di indagine tecnica che questo giudice reputa di dover condividere e fare propria, in quanto le motivazioni sono logiche, coerenti e aderenti alla documentazione sanitaria. Non vi sono ragioni per discostarsi dalle conclusioni del C.T.U. – convergenti con le risultanze peritali del precedente giudizio -, difettando evidenze di segno contrario.

Il C.T.U. ha esaminato le osservazioni del procuratore attoreo, fornendo risposte chiare ed esaustive, pienamente condivisibili.

Dunque la ricorrente non era autorizzata a sospendere l’attività lavorativa, non essendo stata adibita a mansioni dequalificanti o lesive della salute. Difettando l’inadempimento di parte datoriale è da ritenersi ingiustificato il rifiuto della prestazione lavorativa ex art. 1460 cod. civ.

2.3.5. Prive di fondamento le doglianze relative al “mancato accordo tra le parti sulla modificazione dell’orario di lavoro a tempo parziale”.

Parte ricorrente deduce che, a far data dal 24.12.2012, non è stata concordata la collocazione temporale dell’orario lavorativo part-time, in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 8, comma 2 D.Lgs. n. 61 del 2000 e 25, comma 2 del Contratto integrativo aziendale. Da qui l’insussistenza dell’obbligazione a prestare attività lavorativa negli orari non concordati; in tesi attorea il provvedimento espulsivo sarebbe illegittimo “per inesistenza dell’inadempimento contestato e, quindi, della giusta causa”, venendo in rilevo un'”obbligazione giuridicamente inesistente”.

Emerge dagli atti di causa che: a) (…) e Coop. (…) hanno sottoscritto un contratto di formazione e lavoro part-time, convertito a tempo indeterminato in data 01/10/2001; b) l’ultima articolazione oraria concordata dalle parti è del dicembre 2011, efficace per l’intero 2012. Le parti non hanno concordato l’articolazione oraria del part-time per gli anni successivi, tuttavia il comportamento della lavoratrice comprova l’esistenza di un accordo tacito in ordine alla distribuzione settimanale dell’orario di lavoro. Infatti nel periodo 2012 – 2016 la ricorrente ha rispettato gli orari concordati nel 2011 senza sollevare contestazioni, prestando l’attività lavorativa secondo l’orario assegnato da Coop. A.; né essa ha adito l’autorità giudiziaria per la determinazione delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, come previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 61 del 2000. L’unica contestazione riguarda gli orari del periodo 24.12.2012 – 19.01.2013; non sono documentate opposizioni per i periodi successivi.

L’art. 8, comma 2 del D.Lgs. n. 61 del 2000 dispone: “2. L’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni di cui all’articolo 2, comma 2, non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale.

Qualora l’omissione riguardi la durata della prestazione lavorativa, su richiesta del lavoratore può essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale.

Qualora invece l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario, il giudice provvede a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale con riferimento alle previsioni dei contratti collettivi di cui all’articolo 3, comma 7, o, in mancanza, con valutazione equitativa, tenendo conto in particolare delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro …”.

Da tale disposizione si ricava che il lavoratore è l’unico soggetto legittimato ad attivare la procedura giudiziale. Pertanto, a fronte della asserito inadempimento datoriale (determinazione unilaterale dell’orario di lavoro), l’attrice avrebbe potuto adire l’autorità giudiziaria per la determinazione delle modalità temporali della prestazione. Essa invece ha continuato, per diversi anni, ad espletare la prestazione lavorativa in conformità agli orari concordati nel 2011 e comunque accettando per facta concludentia i turni stabiliti dalla datrice di lavoro. In ogni caso la determinazione unilaterale dell’orario non invalida il contratto di lavoro, né rende inesistente l’obbligazione del dipendente; quest’ultimo non è autorizzato a sospendere la prestazione lavorativa, potendo al più rivendicare un risarcimento danni.

In una vicenda analoga a quella scrutinata la Suprema Corte ha espresso il seguente principio di diritto: “In tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete. (Nella specie, relativa a un contratto di lavoro “part-time” in cui la prestazione, pur fissata nella durata settimanale, non era collocata temporalmente, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, senza attivare la procedura ex art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 61 del 2000, si era rifiutato reiteratamente di adempiere alla prestazione nei giorni e secondo l’orario richiesto, pur osservato pacificamente per sette mesi)” (Cass. Sez. L, Ord. n. 12777 del 14/05/2019).

(…) era quindi obbligata a rendere la prestazione lavorativa secondo le indicazioni datoriali, pur in mancanza di un “rinnovo” scritto delle modalità temporali del part-time.

2.3.6. Come testé riferito, la sussistenza della giusta causa va accertata sia in relazione alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore – desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi, nonché dall’intensità dell’elemento intenzionale – sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, con valutazione dell’inadempimento in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza dettata dall’art. 1455 cod. civ. (cfr. Cass. Sez. L, Sent. n. 21017 del 16/10/2015).

Le infrazioni poste a fondamento del licenziamento, valutate unitamente alla recidiva contestata, sono di tale gravità da ledere il vincolo fiduciario. (…) ha posto in essere una pluralità di atti di insubordinazione, tutti identici, reiterando la condotta nel tempo e disattendendo ripetutamente le direttive aziendali. Nonostante Coop. (…) abbia applicato, per i medesimi comportamenti, sanzioni disciplinari conservative, dapprima la multa e successivamente la sospensione dal lavoro, la lavoratrice ha perpetuato il proprio comportamento oppositivo, rifiutandosi di rispettare le disposizioni dei superiori gerarchici. I testi (…) e (…) hanno riferito che “(…) non faceva mai quello che le veniva richiesto”.

L’attrice ha manifestato un atteggiamento di forte contrasto nei confronti del proprio datore di lavoro, avversione destinata a proseguire in futuro come testimoniato dalla mail del 14.02.2016. Il numero rilevante delle infrazioni commesse e l’intenzione manifestata dalla lavoratrice di reiterare i comportamenti inadempienti, interrompendo la prestazione lavorativa prima della verifica giudiziale della legittimità della propria condotta, fanno ritenere proporzionata la sanzione espulsiva essendosi compromesso in modo irreversibile il vincolo fiduciario con la convenuta.

3. Sulle spese di lite

Le spese di lite devono essere poste a carico della ricorrente in ragione della soccombenza ex art. 91 c.p.c., da liquidarsi secondo i parametri del D.M. n. 55 del 2014 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 02.04.2014).

Per le stesse ragioni le spese della C.T.U. – così come liquidate nel decreto del 03.06.2019 – devono essere poste a carico dell’attrice.

P.Q.M.

Il Tribunale di Modena, in persona del Giudice del Lavoro dott. Vincenzo Conte, definitivamente decidendo, ogni contraria istanza, domanda ed eccezione respinta:

1) RIGETTA il ricorso di (…);

2) CONDANNA (…) al pagamento in favore della resistente delle spese di lite, che liquida nella complessiva somma di Euro 1.000,00, oltre rimborso spese generali ex art. 2 D.M. n. 55 del 2014 nella misura del 15%, I.V.A. (se dovuta), e C.P.A.;

3) PONE le spese della CTU medico-legale definitivamente a carico della ricorrente.

Così deciso in Modena il 14 aprile 2020.

Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2020.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.