è sufficiente rilevare come l’art. 1064 comma secondo codice civile espressamente escluda che la chiusura (o recinzione) del fondo possa, di per sé, aggravare l’esercizio della servitù di passaggio se il proprietario abbia cura di lasciare “libero e comodo l’ingresso” al titolare della servitù. Tale risultato, nel caso in cui sia stato posto un cancello, possa essere conseguito anche con la consegna delle chiavi se non ne derivi, in concreto, per il titolare della servitù, un disagio maggiore di quello, del tutto trascurabile, legato alla necessità di custodire le chiavi e di queste servirsi per la chiusura ed apertura del cancello.
Tribunale Brescia, Sezione 3 civile Sentenza 9 febbraio 2019, n. 355
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di BRESCIA
SEZIONE TERZA CIVILE
Il tribunale, nella persona del giudice Andrea Giovanni Melani,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al ruolo generale n. 17193/2013 promossa da
(…) (c.f. (…)), (…) (c.f. (…)), (…) (c.f. (…)), (…) (c.f. (…)), difesi dall’avvocato Si.Ca., elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avvocato Si.Se., in Brescia, via (…)
attori
contro
(…) s.p.a. (c.f. (…)), (…) (c.f. (…)), (…) (c.f. (…)), (…) (c.f. (…)), difesi dagli avvocati Lu.Bo. e Be.To., elettivamente domiciliati presso lo studio dei difensori, in Brescia, via (…)
convenuti
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
1. Con atto di citazione, (…), (…), (…) e (…) hanno convenuto in giudizio (…) s.p.a., (…), (…) e (…), assumendo che (…) e (…) sono comproprietari dei terreni siti in (…) (…), identificati in catasto ai mappali (…) e (…); (…) è proprietario anche dei terreni ivi siti, identificati in catasto ai mappali (…) e (…); sui predetti mappali i proprietari hanno costruito l’immobile destinato ad abitazione; (…) e (…) sono comproprietari del terreno ivi sito, identificato in catasto al mappale 4371, su cui insiste l’immobile destinato a loro abitazione; l’accesso e il recesso ai predetti terreni dalla via pubblica “(…)” (a nord dei loro fondi) e dalla via pubblica “(…)” (a sud dei loro fondi) avvengono tramite una strada sterrata privata consorziale della larghezza di circa quattro metri; questa strada insiste sui mappali, collocati a nord di quelli attorei, (…), (…) di proprietà di (…), (…) di comproprietà di (…) e (…), (…), (…), (…), (…) di proprietà di (…) s.p.a., che è altresì proprietaria dei mappali (…) e (…), collocati a est della strada; il passaggio è esercitato dagli attori e dai loro danti causa da molti decenni; alla fine di maggio 2012, (…) s.p.a. ha collocato due cancelli metallici sulla strada consorziale, uno situato tra il mappale (…) e quelli attorei, e l’altro all’innesto della strada sulla via “(…)”; l’apposizione dei cancelli era stata preannunciata dalla società convenuta e ad essa gli attori si erano opposti; si sono rifiutati di ricevere le chiavi dei cancelli e la società convenuta ha collocato davanti ai medesimi dei cavalletti da cantiere che devono essere rimossi manualmente; nel 1996, la società convenuta, allora utilizzatrice a titolo di leasing dei terreni di cui ai mappali (…) e (…), ha alzato la quota del tratto di strada consorziale che costeggia i predetti terreni, ha edificato un nuovo capannone, inglobando il sedime della strada nell’area operativa di fabbrica, ha asfaltato il tratto di strada sito sui suoi terreni senza realizzare un sistema di canalizzazione delle acque piovane, con la conseguenza che nel tratto di strada sterrato precedente a quello asfaltato si è creato un avvallamento nel quale ristagna l’acqua piovana.
1.1. Gli attori hanno dedotto la titolarità del diritto di servitù di passaggio pedonale e carraio sulla strada consorziale; l’incomodo esercizio della servitù, a causa della collocazione dei cancelli, privi di meccanismi di controllo a distanza, i quali costituiscono un ostacolo per l’accesso ai loro terreni anche da parte di terzi; l’impedimento del passaggio, ovvero il suo più incomodo esercizio, a causa dell’utilizzo del sedime stradale come parcheggio da parte dei dipendenti della società convenuta.
1.2. Gli attori hanno chiesto l’accertamento della titolarità del diritto di servitù di passaggio pedonale e carraio sulla strada consorziale per titolo e/o per usucapione; la condanna dei convenuti alla rimozione dei cancelli e dei cavalletti apposti da (…) s.p.a.; la condanna di quest’ultima alla cessazione del parcheggio e di ogni altra molestia; la condanna dei convenuti al ripristino della strada consorziale, mediante abbassamento del livello alla quota originaria, ovvero alla predisposizione di un sistema di canalizzazione delle acque piovane; la condanna dei convenuti alla rimozione di ogni ostacolo al passaggio; la condanna di (…) s.p.a. al risarcimento dei danni cagionati dalla frapposizione delle limitazioni e degli ostacoli all’esercizio della servitù.
2. (…) s.p.a., (…), (…) e (…) si sono costituiti in giudizio, rappresentando che (…) s.p.a. è proprietaria dei terreni siti in A. (B.), identificati in catasto al foglio (…), mappali (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…) è proprietaria dei terreni ivi siti, identificati in catasto al foglio (…), mappali (…), (…), (…) (sostituito con il mappale (…)), (…) e (…) sono proprietari del terreno ivi sito, identificato in catasto al foglio (…), mappale (…); una porzione dei terreni di proprietà sia degli attori che dei convenuti, di circa metri quattro, confinante ad est con i mappali (…), (…), (…) è adibita a strada privata ad uso esclusivo dei proprietari frontisti; è pacifico il diritto di servitù di passaggio dedotto dagli attori; la servitù è esercitata esclusivamente nel tratto compreso tra i fondi attorei e via “(…)” (lato sud), mentre è inutilizzato da molti anni il tratto che porta a via “(…)” (lato nord); il tratto di strada verso sud è la strada più breve per raggiungere la via pubblica e quello che porta a nord conduce esclusivamente alla zona industriale di Artogne; per molto anni, quest’ultimo tratto è stato occupato da un notevole quantitativo di materiale di risulta, collocato da (…); l’avvallamento denunciato dagli attori è sempre esistito; la società convenuta ha installato un segnale di divieto di parcheggio nel passaggio.
2.1. I convenuti hanno dedotto il difetto di legittimazione passiva di (…), (…) e (…); che l’apposizione dei cancelli non rende più gravoso il passaggio e salvaguarda il patrimonio della società convenuta e la sicurezza dei luoghi di lvaoro; che l’innalzamento del livello della strada consortile si è reso necessario per consentire il collegamento tra i fondi della società convenuta e non impedisce il passaggio attoreo né lo rende più gravoso; che l’avvallamento dipende dalla ridotta capacità di assorbimento dell’acqua da parte del terreno e dall’assenza di servizi finalizzati all’allontanamento delle acque meteoriche.
2.2. I convenuti hanno chiesto, oltre alla dichiarazione del difetto di legittimazione passiva di (…), (…) e (…), il rigetto delle domande attoree.
3. All’udienza del 22 gennaio 2015, sono state rigettate le istanze probatorie, è stata disposta una consulenza tecnica d’ufficio ed è stato nominato consulente il geometra C.P..
All’udienza del 18 ottobre 2018, le parti hanno precisato le conclusioni e sono stati concessi i termini ex art. 190 c.p.c.; alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica, in data 7 gennaio 2019, la causa è stata trattenuta per la decisione.
1. Gli attori hanno rinunciato alle domande proposte nei confronti di (…) e (…).
In letteratura e in giurisprudenza, si distinguono tre fattispecie: la rinuncia agli atti, la rinuncia all’azione, la rinuncia alla domanda.
Soltanto la prima fattispecie è conformata dal legislatore (art. 306 c.p.c.), mentre il regime delle altre due fattispecie è stato elaborato dalla giurisprudenza.
La rinuncia all’azione, a differenza della rinuncia agli atti, si traduce, sul piano sostanziale, in un atto abdicativo del diritto dedotto nella domanda; può essere espressa o tacita, è perfetta ed efficace senza accettazione della controparte (tra le altre, Cass. civ., sez. I, 19 settembre 2004, n. 18255), dà luogo alla cessazione della materia del contendere, che, avendo efficacia di rigetto nel merito della domanda, comporta che le spese del processo devono essere poste a carico del rinunciante (tra le altre, Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953).
La rinuncia alla domanda ricorre nell’ipotesi di cumulo delle domande.
La rinuncia alla domanda può essere espressa oppure tacita; quest’ultima si ravvisa, a titolo esemplificativo, nel caso di omessa formulazione della domanda in sede di precisazione delle conclusioni. Essa non richiede forme solenni (tra le altre, Cass. civ., sez. III, 24 settembre 2013, n. 21848) ed è un atto che può compiere il difensore, senza la necessità di una procura apposita, perché costituisce espressione di determinazioni tecniche del difensore (tra le altre, Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2013, n. 28146).
La rinuncia alla domanda produce l’effetto processuale di restrizione del c.d. “thema decidendum”, senza pregiudicare né il diritto sostanziale né il diritto di azione.
Il giudice non può pronunciare sulla domanda rinunciata o abbandonata, mentre dovrà decidere sulla distribuzione dell’obbligo delle spese processuali, secondo il criterio della c.d. “soccombenza virtuale”.
Nella fattispecie in esame, è dubbia la qualificazione giuridica della rinuncia.
Invero, l’abbandono delle domande di parte attrice, ancorché soggettivamente circoscritto, non è soltanto formale, dal momento che la parte ha omesso di illustrare nelle memorie difensive e negli atti conclusionali le deduzioni inerenti alle domande.
Inoltre, la fattispecie della rinuncia alla domanda è stata elaborata a partire dai casi di cumulo oggettivo di domande – ipotesi in cui plurime domande sono proposte nei confronti del medesimo soggetto – e non anche di cumulo soggettivo, che ricorre quando la stessa domanda è proposta nei confronti di più soggetti.
Appare probabile che parte attrice si sia resa conto dell’estraneità alla lite di (…) e (…) e abbia pertanto manifestato non tanto la volontà di abdicare alle singole domande, bensì di rinunciare ad ottenere da (…) e (…) l’utilità pretesa nei confronti dei restanti convenuti.
Questa conclusione è suffragata dalla rinuncia a tutte le domande, e non già ad una soltanto, e dalle asserzioni di parte attrice contenute nella comparsa conclusionale, attraverso le quali ha giustificato la proposizione delle domande rinunciate in ragione di “un mero equivoco incolpevole sulla estensione” della proprietà di (…) e (…) (p. 14).
Il difensore può rinunciare all’azione soltanto se munito del relativo potere (tra le altre, Cass. civ., n. 28146/2013 cit.).
La procura alle liti conferita dagli attori contempla esclusivamente il potere di rinuncia agli atti e il potere di rinuncia all’azione non risulta conferito aliunde.
La rinuncia è da ritenersi priva di effetto.
Di conseguenza persiste il dovere del giudice di pronunciare sulle domande oggetto della rinuncia.
2. (…), (…) e (…) hanno eccepito il difetto di legittimazione passiva.
La difesa di parte convenuta muove dalla riconduzione delle domande attoree, complessivamente considerate, alla fattispecie della c.d. “actio confessoria servitutis”.
Questa deduzione non è condivisibile.
Giova rammentare che la qualificazione giuridica è un’operazione riservata al giudice (art. 101, co. 2, Cost.), da compiersi mediante l’utilizzo dei criteri di interpretazione di ogni atto giuridico, avuto riguardo agli elementi della domanda – cc.dd. “petitum” e “causa petendi” -, e nel rispetto del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio domande non esperite a quelle formalmente proposte (per tutte, Cass. civ., sez. III, 28 agosto 2009, n. 18783).
Gli elementi identificativi sul piano oggettivo della domanda sono da individuarsi in ragione dell’attività assertiva complessiva della parte.
Gli attori hanno rappresentato di essere proprietari, unitamente ai convenuti, di taluni terreni e che su di essi insiste una strada che collega verticalmente i fondi alle pubbliche vie collocate a nord e a sud.
Gli attori hanno dedotto di vantare il diritto di servitù prediale di passaggio carraio e pedonale sul tratto di strada insistente sui fondi dei convenuti.
Gli attori hanno lamentato che nel predetto tratto, posto a nord rispetto ai loro fondi, l’esercizio del diritto di passaggio è impedito dalla collocazione ad opera di una delle parti ((…) s.p.a.) di due cancelli e dei cavalletti aventi la funzione di mantenere la chiusura dei cancelli, nonché dal parcheggio di veicoli in prossimità del passaggio da parte dei dipendenti di (…) s.p.a.. Infine, gli attori hanno lamentato l’immutazione dello stato dei luoghi ad opera della predetta società, dalla quale deriverebbe l’allagamento della strada consorziale.
Gli attori hanno chiesto l’accertamento della titolarità della servitù e la condanna dei convenuti (o soltanto di alcuni di essi) al ripristino della situazione dei luoghi, oltre che al risarcimento dei danni.
La formulazione delle domande attoree potrebbe evocare la fattispecie dell’azione confessoria (art. 1079 c.c.).
Tuttavia, dalla lettura delle allegazioni – testé riportate – e dalle deduzioni di parte attrice, la conclusione è differente.
Lo scopo pratico perseguito dagli attori è il ripristino fisico del passaggio nei termini precedenti agli interventi di (…) s.p.a. ovvero, limitatamente al problema dell’allagamento della strada, la realizzazione di opere di canalizzazione delle acque, nonché l’inibitoria delle molestie.
Ciò corrisponde a quanto espressamente esposto dagli attori – “con la presente azione gli attori intendono ottenere la condanna della (…) spa e degli altri convenuti alla cessazione delle molestie e alla rimozione degli ostacoli da essa frapposti all’esercizio del diritto di passo in più punti della strada consorziale” (p. 1 cit.) – e a quanto implicitamente desumibile dalle loro asserzioni.
In negativo, gli attori non hanno allegato la contestazione dei convenuti (o di alcuni soltanto di essi) circa l’esistenza (ovvero il contenuto) del diritto di servitù dedotto in questo giudizio; in positivo, gli attori hanno annoverato gli atti, da loro intesi come molestie, posti in essere dalla società convenuta.
Difetta, pertanto, il presupposto per potere qualificare la domanda come azione confessoria, quale rimedio giudiziale attribuito al titolare della servitù volto ad ottenere il riconoscimento dell’esistenza contro chi ne contesta l’esercizio, con o senza turbative.
In assenza di contestazione del diritto, altri sono i rimedi attribuiti al proprietario del fondo dominante per ottenere la cessazione delle molestie.
In particolare, si osserva che “laddove se si è in presenza di turbative o minacce che non implichino la contestazione della servitù, si è fuori dell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 1079 c.c. e al titolare della servitù spetta, oltre alla tutela possessoria, l’azione di risarcimento di cui all’art. 2043 ovvero, ai fini della riduzione in pristino con l’eliminazione delle turbative o molestie, quella di reintegrazione in forma specifica prevista dall’art. 2058 dello stesso codice” (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 1985, n. 3110).
È indubbio che gli attori abbiano domandato anche il risarcimento dei danni patiti a causa delle condotte della società convenuta.
A questa pretesa si applicherà il regime di cui agli artt. 2043 ss. c.c.
Per quanto riguarda le pretese di riduzione in pristino, si osserva quanto segue.
Gli attori hanno esposto che, in risposta alla comunicazione del 29 gennaio 1999 della società convenuta relativa all’intenzione di recintare il proprio fondo e di collocare due cancelli pedonali sulla strada consorziale, si erano opposti “alla apposizione dei cancelli in quanto avrebbero reso più difficoltoso l’esercizio del diritto di transito” (p. 4 cit.); la collocazione dei cancelli, nel 2012, ha reso (e rende) più incomodo l’esercizio della servitù di passaggio, in quanto non dotati di meccanismi di apertura e chiusura a distanza (p. 5 cit.); la creazione di un avvallamento, a seguito dell’opera di livellamento dei terreni, comporta il ristagno dell’acqua piovana e una situazione di pericolo per chi passa a piedi sulla strada (p. 4 cit.).
Le allegazioni richiamano sia la fattispecie di cui all’art. 1067, co. 2, c.c. sia quella di cui all’art. 1064, co. 2, c.c.
In difetto del titolo (art. 1063 c.c.), la prima disposizione prevede che “Il proprietario del fondo servente non può compiere alcuna cosa che tenda a diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo”, mentre la seconda disposizione prevede che “Se il fondo servente viene chiuso, il proprietario deve lasciarne libero e comodo l’ingresso a chi ha un diritto di servitù che renda necessario il passaggio per il fondo stesso”.
Le norme regolano le innovazioni sul fondo servente e attribuiscono al proprietario del fondo dominante il diritto di ottenere il ripristino della situazione precedente per diminuzione dell’esercizio della servitù, quale forma specifica di risarcimento del danno.
Per quanto riguarda la parte della prima domanda volta all’accertamento della titolarità servitù prediale, attesa l’assenza di contestazione di parte convenuta, essa è qualificabile quale azione di mero accertamento.
Residuano poi le ulteriori di domande di condanna alla cessazione delle molestie, tra cui il parcheggio dei veicoli da parte della società convenuta.
L’eccezione sollevata dai convenuti deve essere decisa partitamente, con riguardo alle diverse domande.
2.1. Gli attori hanno chiesto l’accertamento della titolarità del diritto di servitù di passaggio carraio e pedonale sulla strada consorziale.
In sede di precisazione delle conclusioni, gli attori hanno precisato la domanda, chiedendo l’accertamento dell’esistenza della servitù prediale “pacifica ed ammessa dai convenuti (…) spa e (…)” insistente sui terreni di proprietà dei convenuti medesimi (cfr. “foglio di precisazione delle conclusioni”).
Parte convenuta, sin dall’atto introduttivo, ha riconosciuto la titolarità del diritto di servitù.
La domanda proposta dagli attori è priva di interesse.
L’interesse ad agire è una condizione dell’azione, prevista dall’art. 100 c.p.c.
Esso è regolato dalla legge sostanziale; è requisito la cui ricorrenza deve sussistere, al momento della pronuncia, affinché l’azione possa raggiungere lo scopo cui è diretta, ovverosia, secondo la concezione ormai affermatasi, l’emanazione di un provvedimento nel merito e favorevole per chi agisce.
L’interesse ad agire è comunemente definito quale esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice (per tutte, Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2010, n. 15355). È anche efficacemente definito, da una parte della dottrina straniera, quale bisogno di tutela giuridica.
Si è affermato che lo scopo concreto dell’azione è quello di accertare che i convenuti hanno diminuito e reso più incomodo il diritto di servitù di passaggio degli attori in modo illegittimo.
Si è invero accertato che non è contestata la titolarità della servitù. Parte convenuta ha addirittura in positivo riconosciuto la titolarità medesima.
Dalla citazione non emerge l’esigenza obiettiva che gli attori intendono soddisfare attraverso la domanda di accertamento della titolarità della servitù.
Non è dunque possibile valutare la necessità, quanto a soddisfazione della stessa, dell’intervento giudiziale in parte qua.
La domanda di accertamento della titolarità del diritto di servitù è inammissibile, con conseguente rigetto in rito.
Nella pronuncia resta assorbita la decisione sull’eccezione di parte convenuta.
2.2. Rispetto alle domande di riduzione in pristino (rimozione dei cancelli e dei cavalletti e rispristino del livello originario della strada ovvero realizzazione del sistema di canalizzazione dell’acqua piovana), l’eccezione è parzialmente fondata.
Occorre distinguere la legittimazione ad agire o a contraddire (arg. ex art. 81 c.p.c.) dalla titolarità della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.
La prima è una condizione dell’azione rilevante sul piano della regolarità del contraddittorio, mentre la seconda inerisce al merito della controversia.
La condizione della legittimazione passiva è soddisfatta quando l’attore abbia agito nei confronti del soggetto che ha identificato come titolare della posizione giuridica passiva dedotta in giudizio.
La ricorrenza della condizione è accertata sulla base della prospettazione dell’attore (Cass. civ., sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951).
La domanda ex artt. 1067, co. 2, 1064, co. 2, c.c. deve essere esperita nei confronti del proprietario del fondo servente.
Gli attori hanno espressamente attribuito, e nella parte narrativa e nella parte conclusiva della citazione, a (…) s.p.a. la qualità di proprietaria del fondo servente su cui insistono le opere censurate e di autrice materiale delle opere stesse.
Per quanto riguarda la posizione di (…), gli attori hanno allegato che uno dei due cancelli insiste sul confine tra la sua proprietà e quella della società convenuta.
Nei suoi riguardi è ammissibile la domanda di rimozione dei cancelli e dei cavalletti.
Non è invece ammissibile la domanda di condanna alla riduzione in pristino del terreno ovvero alla realizzazione delle opere di convogliamento delle acque.
Gli attori non hanno allegato alcuna forma di partecipazione agli illeciti da parte di (…) e (…).
Le domande attoree proposte nei loro confronti sono allora inammissibili.
Residua, invece, la domanda di condanna di tutti i convenuti alla rimozione di qualunque ostacolo all’esercizio della servitù, che sarà esaminata nel merito.
Le domande di condanna alla cessazione del parcheggio e di risarcimento del danno sono state proposte soltanto nei confronti della società convenuta.
3. Occorre, a questo punto, esaminare nel merito le restanti domande attoree.
Anche in questo caso si deve procedere partitamente.
Giova sin da subito affermare che per l’accertamento degli elementi di fatto utili ai fini della decisione assume precipua rilevanza la consulenza tecnica d’ufficio, la cui bontà non è controversa, perché le operazioni peritali non presentano vizi procedimentali, mentre le deduzioni sono coerenti rispetto agli accertamenti di fatto, compiuti con rigore metodologico.
3.1. La domanda di rimozione dei cancelli e dei cavalletti non è fondata.
In fatto, sono circostanze pacifiche, perché non contestate tra le parti (art. 115, co. 1, c.p.c.): l’installazione di due cancelli, nel maggio 2012, lungo il tratto della strada consorziale di proprietà della società convenuta; l’assenza di meccanismi di controllo a distanza; il rifiuto degli attori di ricevere le chiavi dei cancelli.
Le parti sono portatrici di due interessi confliggenti: l’interesse degli attori al passaggio e l’interesse di parte convenuta alla sicurezza delle persone che accedono ai suoi fondi e del suo patrimonio.
L’art. 1064, co. 2, c.c., norma speciale rispetto a quella di cui all’art. 1067, co. 2, c.c., regola il conflitto: “Se il fondo viene chiuso, il proprietario deve lasciarne libero e comodo l’ingresso a chi ha un diritto di servitù che renda necessario il passaggio per il fondo stesso”.
Il conflitto deve essere composto secondo il criterio di giudizio della ragionevolezza, di cui il bilanciamento degli interessi ne costituisce la tecnica applicativa.
Per quanto riguarda l’interesse di parte convenuta, si osserva quanto segue.
La presenza di due cancelli si spiega per lo stato dei luoghi.
Il tratto stradale costeggia i fondi della società convenuta su entrambi i lati.
La strada consorziale è collegata sia a nord che a sud alla pubblica via.
La chiusura della strada da ambo i lati è un accorgimento minimo del proprietario del fondo servente per impedire intrusioni estranee a protezione dell’incolumità delle persone che vi hanno accesso e del patrimonio (art. 841 c.c.).
Non si può pretendere che la società convenuta si limiti all’installazione di un cancello, altrimenti sarebbe vanificata quantomeno parzialmente l’esigenza di sicurezza.
In astratto, la presenza dei due cancelli è motivo di disagio per chi transita lungo la strada. Perché il disagio assuma la consistenza di pregiudizio occorre accertare l’effettiva compromissione della servitù.
La valutazione dell’interesse degli attori postula allora l’accertamento dell’estensione e delle modalità di esercizio della servitù.
La prospettazione in argomento degli attori è patentemente carente.
Gli attori non hanno allegato in termini utili l’esistenza di un titolo regolativo del diritto (art. 1063 c.c.). Giova rammentare che il giudice non è obbligato a ricercare gli elementi di fatto, mediante l’esame dei documenti acquisiti al processo, la cui produzione è strumentale soltanto alla prova di una circostanza precisamente allegata (Cass. civ., sez. un., 1 febbraio 2008, n. 2435), altrimenti l’operazione sarebbe arbitraria.
Ciò considerato, nel caso di specie, l’esercizio del diritto di servitù deve avvenire in conformità al suo possesso (art. 1065, parte prima c.c.), che misura l’utilità concreta tratta dal fondo servente.
Le modalità dell’esercizio della servitù riguardano anzitutto la frequenza del transito.
Gli attori hanno allegato di esercitare il passaggio sulla strada consorziale da molti decenni.
L’enunciato è muto sulla frequenza del passaggio proprio nel tratto litigioso.
Parte attrice non ha depositato la memoria ex art. 183, co. 6, n. 1) c.p.c., omettendo di precisare gli enunciati fattuali.
Deve essere soggiunto che gli attori hanno allegato di avere rifiutato la consegna delle chiavi dei cancelli.
Tenuto conto che non hanno indicato la frequenza del transito e che non hanno mai sperimentato il passaggio mediante il sistema oggi previsto di apertura e di chiusura dei cancelli, gli attori non riescono a convincere dell’esistenza di un concreto ostacolo all’esercizio della servitù derivante dall’installazione dei cancelli; la loro deduzione di non comodità del passaggio assume di converso un connotato di apoditticità.
La valorizzazione del dato concreto è diffusa in giurisprudenza (tra le tante, Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2002, n. 15796).
La Corte di cassazione ha statuito che “è sufficiente rilevare come l’art. 1064 comma secondo codice civile espressamente escluda che la chiusura (o recinzione) del fondo possa, di per sé, aggravare l’esercizio della servitù di passaggio se il proprietario abbia cura di lasciare “libero e comodo l’ingresso” al titolare della servitù e come questa Corte abbia più volte chiarito che tale risultato, nel caso in cui sia stato posto un cancello, possa essere conseguito anche con la consegna delle chiavi se non ne derivi, in concreto, per il titolare della servitù, un disagio maggiore di quello, del tutto trascurabile, legato alla necessità di custodire le chiavi e di queste servirsi per la chiusura ed apertura del cancello” (Cass. civ., sez. II, 30 marzo 1995, n. 3804).
La stessa considerazione concerne l’assenza di citofoni, quale limite all’accesso di terzi, ospiti degli attori.
La mancata prospettazione dell’entità del transito (anche) dei soggetti terzi e l’esistenza di altro accesso alla pubblica via inducono a ritenere che gli attori abbiano posto un problema ipotetico anziché un pregiudizio concreto ai loro interessi. Tanto è vero che gli attori non hanno formulato alcun capitolo di prova in parte qua.
Infine, ignorando le precise modalità del transito, non è possibile accertare in concreto una limitazione all’esercizio della servitù nel restringimento della sede stradale conseguente all’installazione dei cancelli.
Il consulente tecnico d’ufficio ha calcolato il restringimento in 23 cm per il primo cancello e in 10 cm per il secondo (p. 5 rel. per.).
Il consulente ha dedotto in astratto la portata modesta della restrizione.
A questa conclusione si aderisce, in difetto, come già esposto, di precise allegazioni degli attori.
Gli attori non hanno dimostrato di avere subito una concreta significativa compromissione del loro interesse al transito.
La domanda di rimozione dei cancelli è rigettata.
Anche la domanda di rimozione dei cavalletti non è fondata.
Gli attori hanno esposto che, in seguito al loro rifiuto di prendere in consegna le chiavi dei cancelli, la società convenuta ha collocato davanti ai cancelli stessi “dei cavalletti da cantiere che debbono essere rimossi manualmente per poter passare” (p. 5 cit.).
Dal canto suo, la società convenuta ha allegato di avere collocato un cavalletto da muratore sull’ingresso prospiciente via “(…)” prima dell’installazione dei cancelli, e che lo stesso è stato rimosso.
Gli attori non hanno contestato la prospettazione avversaria, né in udienza, né negli atti processuali successivi, avendo deciso di non depositare la memoria ex art. 183, co. 6, n. 1), c.p.c.
Ciò che più conta è che parte attrice non ha provato la circostanza (art. 2697, co. 1, c.c.).
Invero, con la memoria ex art. 183, co. 6, n. 2), c.p.c., gli attori hanno chiesto l’assunzione delle prove orali per accertare che sino al maggio 2012 la convenuta aveva collocato dei cavalletti da cantiere e che gli attori stessi erano stati costretti a rimuoverli manualmente per transitare (capitolo sub (…)).
Il capitolo di prova contiene circostanze diverse da quelle enunciate in citazione.
Se nella citazione la condotta della società convenuta di apposizione dei cavalletti è stata descritta come attuale, nella memoria la condotta è stata temporalmente circoscritta al maggio 2012.
Se è vero che con la memoria ex art. 183, co. 6, n. 2), c.p.c., la parte non può precisare o modificare le allegazioni, è altresì vero che, da un lato, è manifesta la confusione circa la ricostruzione dei fatti di parte attrice e segnatamente circa l’attualità della lamentela, atteso che persiste la domanda di condanna alla rimozione dei cavalletti ma nel capitolo di prova la parte ha limitato al maggio 2012 la loro apposizione aggiungendo che la società convenuta “lascia aperti” i cancelli, e dall’altro lato, la parte, modificando l’enunciato fattuale, non si è posta nelle condizioni di provare la circostanza per come allegata in citazione.
La domanda è rigettata.
La domanda di cessazione dell’attività di parcheggio è fondata.
In fatto, la società convenuta ha allegato di avere posto un cartello di divieto di parcheggio; tuttavia, la parte non ha negato il verificarsi del parcheggio, né l’idoneità dello stesso ad impedire o limitare la fruibilità del transito.
In diritto, il parcheggio di veicoli in prossimità all’ingresso della strada costituente fondo servente è una turbativa all’esercizio del passaggio che non risponde né all’interesse a recintare i fondi di parte convenuta, né ad altro interesse, perché non specificamente dedotto.
La domanda è fondata e la società convenuta è condannata a cessare e a fare cessare l’attività di parcheggio nel tratto di strada consorziale di sua proprietà.
3.2. Gli attori hanno chiesto la condanna della società convenuta al ripristino della strada consorziale, mediante abbassamento del livello alla quota originaria, ovvero alla predisposizione di un sistema di canalizzazione delle acque piovane.
La domanda è fondata.
È circostanza pacifica tra le parti l’esistenza del ristagno lamentato dagli attori.
Il consulente tecnico ha rilevato che esso cagiona il deterioramento del piano di calpestio, rendendolo impraticabile (p. 6 rel. per.).
L’evento costituisce dunque un limite al godimento della strada, quantomeno ai fini del transito pedonale, come riconosciuto dalla stessa società convenuta, ove ha dato atto di avere ottenuto dal comune il permesso per realizzare le opere risolutive del problema (p. 11 comp. cost.).
Ricorrono gli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito.
È circostanza pacifica l’innalzamento della quota del tratto di strada consorziale da parte della società convenuta.
Anche il consulente tecnico ha accertato che la società convenuta ha realizzato l’innalzamento del piano viario che, in corrispondenza del tratto di collegamento tra i fondi di cui ai mappali (…) e (…), è stata stimata in 80 cm (p. 6 rel. per.).
Il consulente tecnico ha accertato che l’innalzamento determina il ristagno delle acque meteoriche nel tratto di quota inferiore (ibidem).
Il consulente tecnico di parte convenuta ha sostenuto che il ristagno delle acque meteoriche non dipende esclusivamente dalle opere di innalzamento, ma anche dalla condotta di (…) che avrebbe concorso a determinare la differenza di quota del tratto stradale che affianca i suoi fondi rispetto a quella del tratto che affianca il fondo di proprietà di (…) di cui al mappale (…) (la prima sarebbe superiore alla seconda), mediante attività di riporto e di rimaneggiamento del terreno.
La circostanza, non circoscritta temporalmente, non è stata allegata dalla società convenuta ed è rimasta estranea al c.d. “thema probandum”.
Ne consegue la sua irrilevanza.
Il consulente tecnico ha correttamente asserito l’impossibilità di accertare lo stato dei luoghi antecedente alla realizzazione delle opere di innalzamento (p. 8 rel. per.).
Leggendo in positivo la deduzione del consulente di parte convenuta, si deve ritenere che anch’egli abbia riconosciuto all’innalzamento del terreno efficienza causale del ristagno delle acque meteoriche, ancorché in concorso con altri fattori.
Il concorso di cause non esclude la responsabilità dell’asserito autore dell’illecito (art. 41 c.p.; tra le tante, Cass. civ., sez. VI, 20 novembre 2017, n. 27524).
Dalle operazioni peritali è emersa la necessità di realizzare opere di raccolta e di smaltimento delle acque piovane, proprio per evitare il ristagno delle acque.
La colpa della società convenuta risiede nella sua negligenza per non avere adottato i dispositivi volti ad impedire l’avvallamento.
Il consulente tecnico ha precisamente indicato le opere da realizzare (p. 6 rel. per.).
Il consulente di parte convenuta ha proposto la realizzazione di opere mediante la dispersione delle acque concentrata in due pozzi, diversamente da quella indicata dal consulente d’ufficio, che prevede la dispersione diffusa lungo l’intero tracciato, mediante il collocamento di tubi longitudinali e griglie trasversali.
Quest’ultima soluzione appare la migliore, in un’ottica di precauzione.
Il consulente d’ufficio ha esposto che lo scavo della sede stradale per l’inserimento dei pozzi, a causa delle ridotte dimensioni della stessa, potrebbe comportare il cedimento o la fessurazione dei muri di recinzione che delimitano la strada.
La realizzazione delle opere di smaltimento delle acque è rimedio preferibile alla riduzione in pristino della situazione antecedente, nella prospettiva di un ragionevole bilanciamento degli interessi.
Invero, è la stessa parte attrice ad avere formulato alternativamente la richiesta di riduzione in pristino e quella di realizzazione di opere di canalizzazione, poiché entrambe ugualmente risolutive del problema lamentato.
La società convenuta è, pertanto, condannata alla realizzazione delle opere descritte dal consulente tecnico d’ufficio.
3.3. Gli attori hanno chiesto la condanna dei convenuti a rimuovere qualunque ostacolo all’esercizio del diritto di servitù di passaggio.
La domanda è rigettata per la genericità delle ragioni poste a suo fondamento.
4. Gli attori hanno chiesto la condanna della società convenuta al risarcimento per equivalente dei danni cagionati dagli ostacoli all’esercizio del diritto di servitù.
La domanda deve essere esaminata limitatamente alle domande attoree accolte.
La domanda risarcitoria non è fondata.
Parte attrice ha allegato di avere subito il danno a causa dell’incomodo esercizio del passaggio. Si può ritenere che la parte abbia implicitamente invocato il principio del c.d. “danno in re ipsa”.
Questo principio non merita accoglimento per due ordini di ragione.
Il danno risarcibile da fatto illecito, quale è l’illecito ex art. 1067, co. 2, c.c., è costituito dalle conseguenze pregiudizievoli per un bene giuridico derivanti da una determinata condotta. Si deve, pertanto, escludere l’ammissibilità della figura del danno – evento (Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972).
Occorrono pertanto l’allegazione e la prova del danno subito dal mancato godimento del fondo servente.
Inoltre, volendo ammettere la risarcibilità del danno-evento (incomodo esercizio della servitù), esso trova già ristoro nei rimedi alla cui esecuzione è condannata la società convenuta, quali forme specifiche di risarcimento del danno.
In ogni caso, l’infondatezza della domanda deriva dalle lacune assertive e probatorie in ordine all’entità del danno.
Nel precisare le conclusioni, gli attori si sono rimessi alla liquidazione equitativa del danno, sennonché l’applicabilità dell’art. 1226 c.c. dipende dal concorso di precise circostanze.
La Corte di cassazione ha più volte statuito che “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza” (Cass. civ., sez. III, 30 aprile 2010, n. 10607).
Gli attori non hanno indicato alcun criterio per la liquidazione del danno, né hanno allegato le ragioni per il ricorso del giudice all’equità integrativa.
L’intervento giudiziale preteso, volto a quantificare il danno, si rileverebbe del tutto arbitrario.
La domanda è rigettata.
Al regolamento delle spese processuali si applica il principio di causalità, di cui il criterio della soccombenza ex art. 91 c.p.c. ne costituisce espressione (Cass. civ., sez. III, 30 gennaio 2009, n. 2473).
Gli attori e i convenuti sono considerati come un’unica parte.
Parte attrice è risultata soccombente rispetto alla domanda di accertamento della titolarità della servitù, di condanna della società convenuta alla rimozione dei cancelli e dei cavalletti, di qualunque altro ostacolo all’esercizio della servitù, e di condanna al risarcimento dei danni.
Parte attrice è risultata soccombente anche rispetto a tutte le domande proposte nei confronti di (…), (…) e (…).
Con riguardo a quest’ultime, le deduzioni di parte convenuta non meritano accoglimento (p. 14 comp. concl.).
In diritto, non si tratta di un equivoco incolpevole, dovendo la parte, prima di introdurre un giudizio, accertare la correttezza del contraddittorio.
Inoltre, la parte ha rinunciato parzialmente a fare valere le sue pretese soltanto in sede di precisazione delle conclusioni. Pertanto, il “ritardo” nell’emenda, se così si vuole intendere, non appare sostenuto dall’assenza di colpa.
In ogni caso, la rinuncia non ha sortito alcun effetto, per le ragioni sopra esposte, e pertanto la proposizione originaria delle domande ha sortito il dovere del giudice di pronunciare sull’eccezione dei convenuti.
La situazione non sarebbe stata diversa se si fosse ritenuta efficace la rinuncia, perché qualificata come rinuncia alla domanda e non all’azione, perché il giudice avrebbe comunque dovuto accertare la bontà dell’eccezione in rito per decidere della regolamentazione delle spese processuali e avrebbe concluso ugualmente per la soccombenza (virtuale) degli attori.
Parte attrice è risultata vittoriosa rispetto alla domanda di condanna della società convenuta a cessare e fare cessare l’attività di parcheggio e a realizzare le opere di canalizzazione delle acque.
Le spese processuali sono compensate nella misura di un terzo e la restante quota è posta a carico di parte attrice.
Le spese processuali sono liquidate secondo i parametri del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, novellato dal D.M. 8 marzo 2018, n. 37, in quanto, sebbene l’attività difensiva sia stata svolta nella vigenza anche della disciplina anteriore (D.M. 20 luglio 2012, n. 140), opera il principio – enunciato dalla Corte di cassazione (Cass. civ., sez. un., 12 ottobre 2012, n. 17406) – di applicazione dei criteri di liquidazione del compenso per l’intera attività stabiliti in epoca posteriore.
Il valore della causa è indeterminabile.
Tenuto, altresì, conto delle difficoltà dell’affare, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, non vi è motivo di discostarsi dai parametri forensi medi di cui alla corrispondente tabella allegata al decreto ministeriale.
Le spese processuali sono liquidate nella somma di Euro 10.343,00 per compensi, oltre a spese generali al 15%, c.p.a. e i.v.a. alle rispettive aliquote di legge.
Non trova applicazione l’aumento ex art. 4, co. 2, D.M. n. 55 del 2014, richiesto dai convenuti, attesa l’unitarietà della loro difesa (i convenuti si sono difesi tutti nei soli confronti degli attori e non di ulteriori soggetti), e di quella degli attori (appunto da considerare come un’unica parte).
Il pagamento delle spese della consulenza tecnica d’ufficio, liquidate con separato decreto, è posto a carico delle parti in solido, nei confronti del consulente tecnico d’ufficio, e nei rapporti interni, in via definitiva, è posto a carico di parte attrice nella misura dei due terzi e di parte convenuta nella restante misura.
P.Q.M.
Il tribunale, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione rigettata, così provvede:
1) dichiara inammissibile la domanda di accertamento della titolarità del diritto di servitù prediale di passaggio proposta da (…), (…), (…), (…) nei confronti di (…) s.p.a., (…), (…), (…);
2) dichiara inammissibili le ulteriori domande proposte da (…), (…), (…), (…) nei confronti di (…) e (…);
3) dichiara inammissibile la domanda proposta da (…), (…), (…), (…) di condanna di (…) al rispristino della strada consorziale ovvero a predisporre un sistema di canalizzazione delle acque piovane;
4) rigetta le domande proposte da (…), (…), (…), (…) di condanna di (…) s.p.a. e (…) alla rimozione dei cancelli e dei cavalletti;
5) condanna (…) s.p.a. a cessare e a fare cessare il parcheggio diretto e indiretto sulla strada consorziale;
6) condanna (…) s.p.a. a realizzare le opere di smaltimento delle acque piovane descritte nella consulenza tecnica d’ufficio del geometra C.P. del 25 giugno 2015 a pagina 6;
7) rigetta la domanda proposta da (…), (…), (…), (…) di condanna di (…) s.p.a., (…), (…), (…) di rimuovere qualunque ostacolo all’esercizio del diritto di passaggio;
8) rigetta la domanda proposta da (…), (…), (…), (…) di condanna di (…) s.p.a. al risarcimento dei danni;
9) compensa le spese processuali tra le parti nella misura di un terzo e condanna parte attrice al rimborso delle spese processuali a favore di parte convenuta nella misura di due terzi, spese che sono liquidate per l’intero nella somma di Euro 10.343,00, per compensi, oltre a spese generali al 15%, c.p.a. e i.v.a. alle rispettive aliquote di legge;
10) pone definitivamente le spese della consulenza tecnica d’ufficio a carico delle parti in solido, nei confronti del consulente tecnico d’ufficio, e a carico di parte attrice nella misura dei due terzi e di parte convenuta nella restante misura, nei rapporti interni.
Così deciso in Brescia il 6 febbraio 2019.
Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2019.