la risoluzione di diritto del contratto conseguente all’applicazione di una clausola risolutiva espressa postula non soltanto la sussistenza, ma anche l’imputabilità dell’inadempimento, in quanto la pattuizione di tale modalità di scioglimento dal contratto, pur eliminando ogni necessità di indagine in ordine all’importanza dell’inadempimento, non incide, per converso, sugli altri principi regolatori dell’istituto della risoluzione, né, in particolare, configura un’ipotesi di responsabilità senza colpa, onde, difettando il requisito della colpevolezza dell’inadempimento, la risoluzione non si verifica né, di conseguenza, può in alcun modo essere legittimamente pronunciata. Pertanto, ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento, in presenza di clausola risolutiva espressa, pur se la colpa del contraente inadempiente si presume, ai sensi dell’art. 1218 c.c., il giudice non è tenuto solo a constatare che l’evento previsto dalla detta clausola si sia verificato, ma deve esaminare, con riferimento al principio della buona fede, il comportamento dell’obbligato, potendo la risoluzione essere dichiarata solo ove sussista (almeno) la colpa di quest’ultimo.
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Tribunale|Milano|Sezione 8|Civile|Sentenza|18 maggio 2021| n. 4355
Data udienza 18 maggio 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Milano, Ottava Sez. Civile in persona del Giudice Monocratico Dott.ssa Arianna Chiarentin, ex art. 429 c.p.c. ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa promossa
DA
(…)
RICORRENTE
contro
(…)
domiciliata in VIALE (…) 20129 MILANO, presso il difensore avv. DE.MA.
RESISTENTE
CONCLUSIONI: le parti, a seguito di discussione orale, hanno concluso come in atti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’oggetto del contendere della presente controversia attiene al tardivo pagamento da parte della conduttrice (…) a favore della parte locatrice (…) del canone di locazione relativo al II trimestre 2020 (aprile-giugno 2020) maturato in relazione al contratto di locazione ad uso commerciale stipulato in data 2 marzo 2008 tra quest’ultimo e (…) – al quale la (…) era subentrata a far data dal 16 settembre 2016 – avente ad oggetto l’immobile ubicato in Milano, Via (…) nel quale viene svolta l’attività di bar e somministrazione di cibi e bevande.
In particolare, per quanto interessa in questa sede:
1. con comunicazione datata 27 marzo 2019 il locatore inviava la disdetta dal contratto di locazione (cfr. doc. n. 5 resistente) che, tuttavia, perveniva alla conduttrice oltre il termine semestrale di preavviso e, dunque, non provocava la cessazione del contratto;
2. in data 4 agosto 2020 il locatore notificava alla conduttrice atto di intimazione di sfratto per morosità allegando l’intervenuta risoluzione del contratto ex art. 1456 c.c. in combinato disposto con l’art. 5 del contratto già a far data dal 25 maggio 2020 in relazione al tardivo pagamento del II trimestre 2020 (saldato solamente in data 3 giugno 2020) o, comunque, in relazione al mancato pagamento del III trimestre 2020;
3. la conduttrice, con memoria di costituzione depositata in data 16 settembre 2020, dava atto di avere atteso di effettuare il pagamento relativo al II trimestre 2020 in quanto era in attesa della relativa quantificazione da parte del locatore, già sollecitata in data 25 marzo 2020 (cfr.doc. 10 intimata), facendo affidamento sull’abituale invio delle richieste da parte del locatore e della prassi sino ad allora seguita di effettuare il pagamento del trimestre di riferimento dopo la ricezione (cfr. docc. 11-15 intimata);
1) la conduttrice, pur non avendo ricevuto le note, in data 3 giugno 2020 effettuava il pagamento del canone relativo al II trimestre sulla base di una media degli importi versati in precedenza (cfr. doc. n. 16) mentre in data 9 luglio 2020 – dunque già prima della notifica dello sfratto (ricevuto in agosto), effettuava il pagamento anche del III trimestre 2020 (doc. n. 17);
2) il locatore insisteva per le domande contenute nell’atto di intimazione;
3) il Giudice, rilevato che la morosità non persisteva, disponeva il mutamento del rito e concedeva alle parti i termini per le memorie integrative.
Il locatore, con memoria integrativa depositata in data 3 novembre 2020, stante il fatto che il contratto di locazione in essere con la conduttrice prevedeva il pagamento del canone di locazione a mezzo di rate trimestrali anticipate con scadenze 1 gennaio, 1 aprile, 1 luglio e 1 ottobre e, in caso di mancato pagamento anche di una sola rata del canone locativo decorsi 8 giorni dalle convenute scadenze, la risoluzione ope legis del contratto tramite il meccanismo della clausola risolutiva espressa ex art. 5 del contratto invocata con comunicazione del 25 maggio 2020, deducendo che il contratto non disponeva che il pagamento fosse subordinato alla preventiva indicazione economica del quantum da parte del creditore ed allegando che il pagamento del II trimestre 2020 scaduto in data 1 aprile 2020 fosse stato eseguito solo in data 4 giugno 2020, invocava la risoluzione del contratto ope legis per fatto e colpa della conduttrice stante il tenore delle predette clausole contrattuali, invocando a tal fine una declaratoria di scioglimento del rapporto a seguito dell’inadempimento, ad opera della parte conduttrice, alla fondamentale obbligazione di cui all’art. 1587 c.c. relativa alla corresponsione dei canoni di locazione dovuti nei termini di cui al contratto.
In subordine, chiedeva dichiararsi la risoluzione del contratto per grave inadempimento della conduttrice.
La parte conduttrice, con memoria integrativa depositata in data 10 dicembre 2020, chiedeva il rigetto delle avverse pretese sulla base delle motivazioni già esposte nella comparsa di costituzione, ovvero:
1) che per prassi consolidatasi nel corso di tutta la durata del rapporto locativo, il pagamento del canone avveniva sempre a seguito dell’emissione della nota con l’ammontare del canone e delle spese da pagare da parte del locatore (cfr. docc. 1115);
2) che la conduttrice aveva chiesto in data 25 marzo 2020, e quindi prima della scadenza della rata 1/4/2020 – 30/6/2020, l’ammontare della stessa, cui tuttavia non seguiva alcun riscontro da parte del locatore (cfr. doc. 10 intimata);
3) che, del tutto inaspettatamente, senza alcun preavviso, in data 25 maggio 2020, il locatore le comunicava di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa contenuta nell’art. 5 del contratto e nell’agosto 2020 le notificava sfratto per morosità;
4) che, nel caso di specie, la richiesta di accertamento dell’intervenuta risoluzione del contratto da parte della locatrice era persino contraria ai principi di correttezza e buona fede.
Queste le rispettive posizioni delle parti, il Giudice ritiene che le domande azionate dal locatore (…) vadano disattese per i motivi di seguito indicati.
Deve premettersi che la risoluzione di diritto del contratto conseguente all’applicazione di una clausola risolutiva espressa postula non soltanto la sussistenza, ma anche l’imputabilità dell’inadempimento, in quanto la pattuizione di tale modalità di scioglimento dal contratto, pur eliminando ogni necessità di indagine in ordine all’importanza dell’inadempimento, non incide, per converso, sugli altri principi regolatori dell’istituto della risoluzione, né, in particolare, configura un’ipotesi di responsabilità senza colpa, onde, difettando il requisito della colpevolezza dell’inadempimento, la risoluzione non si verifica né, di conseguenza, può in alcun modo essere legittimamente pronunciata (Cfr., per tutte, Cass. n. 3044/91, n. 10102/94, n. 9356/00).
Pertanto, ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento, in presenza di clausola risolutiva espressa, pur se la colpa del contraente inadempiente si presume, ai sensi dell’art. 1218 c.c., il giudice non è tenuto solo a constatare che l’evento previsto dalla detta clausola si sia verificato, ma deve esaminare, con riferimento al principio della buona fede, il comportamento dell’obbligato, potendo la risoluzione essere dichiarata solo ove sussista (almeno) la colpa di quest’ultimo (Cfr. Cass. n. 15026 del 2005 e Cass. n. 2553 del 2007). Ebbene, nella specie, nonostante il canone di locazione relativo al II trimestre 2020 sia stato pagato con un ritardo di due mesi rispetto alla data di scadenza prevista nel contratto, la conduttrice (…) ha, tuttavia, dato dimostrazione che il ritardo nell’adempimento non possa dirsi riconducibile ad una propria condotta colposa.
A confutazione di quanto asserito dalla parte locatrice, la difesa della parte conduttrice ha con copiosa ed esaustiva documentazione prodotta agli atti di causa dimostrato come nel corso della locazione si fosse instaurata e consolidata una prassi tale per cui i pagamenti dei trimestri erano sempre stati preceduti dell’emissione da parte del locatore di note attraverso la quali veniva data comunicazione alla conduttrice della precisa quantificazione dell’importo da corrispondere (cfr. docc. 11-15 intimata).
Tale prassi consolidata ha inevitabilmente ingenerato un affidamento incolpevole in capo alla conduttrice circa la possibilità di provvedere al pagamento del dovuto solo a seguito della ricezione di tale comunicazione.
Tale prassi è, a fortiori, confermata dal fatto che anche in relazione al pagamento del II trimestre 2020 la conduttrice aveva sollecitato il locatore all’emissione della relativa nota già in data 25 marzo 2020 – dunque ben prima della relativa scadenza (1 aprile 2020) – con mail nella quale, peraltro, si contestava la circostanza relativa alla cessazione del contratto alla data del 31 marzo 2020, come nuovamente prospettato dal locatore il quale manifestava – sebbene in assenza delle relative condizioni – la volontà evidente di porre fine al rapporto contrattuale.
Non solo, dunque, il locatore, seppure espressamente sollecitato, non comunicava l’importo del II trimestre 2020 alla sig.ra (…), ma procedeva in data 25 maggio 2020 a renderle noto di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa in relazione al mancato pagamento proprio di quel trimestre (aprile-giugno 2020), così violando il canone di correttezza e buona fede contrattuali.
Tale condotta è ancor più censurabile, ad avviso del Tribunale, anche perché riferita ad un trimestre in relazione al quale vi è stato il blocco delle attività di bar e ristorazione determinato dal c.d. lockdown imposto al fine di contenere gli effetti della pandemia da Covid-19 ed in relazione al quale è quanto meno dubbio che l’importo fosse dovuto nella sua interezza.
Con le disposizioni emergenziali emesse per far fronte alla pandemia in corso il Governo e la Regione hanno disposto la chiusura degli esercizi commerciali (e, in generale, delle attività produttive e professionali) che non svolgono attività inerenti servizi e beni di prima necessità, dal 9 marzo al 18 maggio 2020.
Per effetto del cosiddetto lock-down, ai conduttori di immobili adibiti ad uso commerciali, produttivo e professionale è stata inibita l’utilizzazione del bene per lo svolgimento di attività ritenute ‘non essenziali’, in forza di ordine dell’autorità (factum principis). Ciò ha comportato senz’altro una limitazione nel godimento del bene locato, sotto il profilo non della sua detenzione (che è rimasta al conduttore), quanto piuttosto della sua utilizzazione secondo la destinazione negoziale, entrambe prestazioni (detenzione e destinazione contrattuale) che rientrano nell’obbligo del locatore di mantenere la cosa locata, nel corso del rapporto, “in istato da servire all’uso convenuto” (art. 1575 n. 2) c.c.).
Ne consegue che l’obbligo cui è tenuto il locatore è stato adempiuto, nel periodo in questione, solo parzialmente e che anche la causa concreta del contratto, vale a dire la sua funzione economico-sociale, non si è pienamente realizzata.
Il sinallagma contrattuale ne è risultato alterato giacché è stata resa solo una parte della prestazione per la quale è stato pattuito il canone.
Ciò, tuttavia, non è imputabile al locatore ed il suo obbligo di mantenere locata in stato da servire all’uso convenuto trova un limite nella disciplina dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Nei contratti a prestazioni corrispettive, in caso di alterazione del sinallagma funzionale per cause indipendenti dalla volontà dei contraenti, il legislatore ha previsto, in generale, che, ove la prestazione sia divenuta parzialmente impossibile, la controparte “ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da lui dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale” (art. 1464 c.c.). E’ stato evidenziato che la disposizione concerne il caso dell’impossibilità parziale definitiva della prestazione, e non anche quella temporanea, quale è verosimilmente quella in esame. L’impossibilità temporanea della prestazione, per causa non imputabile al debitore, determina invece la sospensione del contratto: il debitore, “finché essa perdura”, non è responsabile del ritardo nell’adempimento (art. 1256, comma 2, c.c.). Nulla dispone la norma con riguardo all’impossibilità temporanea della prestazione del creditore, quale è il locatore, per causa non imputabile.
Questa disciplina generale è applicabile anche al rapporto di locazione. Essa, tuttavia, non contempla ex professo il caso, che ricorre nella specie, di impossibilità temporanea (perché limitata al periodo di lock-down) e parziale (perché relativa alla sola destinazione contrattuale) della prestazione.
In materia di locazioni, il legislatore ha dettato una disciplina specifica, in ragione anche del fatto che si tratta di rapporti di durata, finalizzata a preservare la corrispettività delle prestazioni (quale concordata tra le parti) e a rimediare ad eventuali alterazioni del sinallagma contrattuale nel corso del rapporto, prevedendo dei rimedi appositi in favore del conduttore, in caso di sopravvenuta e temporanea limitazione nel godimento del bene per causa non imputabile al locatore: ove debbano essere eseguite riparazioni che si protraggano per oltre venti giorni, al conduttore è riconosciuto “il diritto a una riduzione del corrispettivo, proporzionata all’intera durata delle riparazioni stesse ed all’entità del mancato godimento” (art. 1584, comma 1, c.c.. Si veda Cassazione civile sez. III, 27/ 02/ 2004, n. 3991: “In relazione ai contratti di locazione di immobili urbani, qualora l’immobile locato venga a versare, anche se non per colpa del locatore, in condizioni tali da non consentire il normale godimento del bene in relazione alla sua destinazione contrattuale, (nel caso di specie, le infiltrazioni di umidità derivanti dalle fatiscenti tubature condominiali avevano reso l’immobile almeno in parte inagibile), il conduttore convenuto in giudizio per il pagamento dell’intero canone, se non può validamente opporre l’eccezione di inadempimento, ha comunque diritto ad ottenere una riduzione del canone, proporzionale alla riduzione dell’utilità che il conduttore consegue, a causa del limiti esistenti al pieno godimento del bene come contrattualmente previsto”. Cfr. altresì Cassazione civile sez. III, 15/03/2018, n. 6395).
Analogo diritto è riconosciuto al conduttore in caso di vizi, originari o sopravvenuti, imputabili al locatore, “che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito” (artt. 1578 e 1581 c.c.).
Il riconoscimento del diritto del conduttore ad una riduzione del canone, proporzionata alla sopravvenuta diminuzione del godimento, costituisce specifica applicazione di un principio generale che presiede la disciplina delle locazioni, quello “della sinallagmaticità fra godimento e corrispettivo, per cui ove quel godimento non è attuabile secondo le previsioni contrattuali il conduttore è abilitato a pretendere una riduzione del relativo corrispettivo e financo legittimato alla risoluzione del rapporto, quando quella diminuzione è tale da comportare il venir meno dello stesso interesse del conduttore alla persistenza della locazione” (Cass. n. 3590/1992).
Premesse queste considerazioni, nel caso in esame è indubbio che, per effetto delle disposizioni emergenziali, la prestazione del locatore di assicurare il godimento dell’immobile per la destinazione contrattuale non è stata adempiuta nella sua interezza, essendo stato precluso, per una parte del periodo in questione (1 aprile-17 maggio 2020), lo svolgimento dell’attività professionale per il quale esso era stato locato e quindi l’uso pattuito. Parimenti indubbio è che ciò non è imputabile al locatore.
Queste considerazioni sono avvalorate dal disposto dell’art. 216, comma 3, della L. 77/2020 (di conversione del cosiddetto Decreto Rilancio), a mente del quale “La sospensione delle attività sportive, disposta con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri attuativi dei citati decreti legge 23 febbraio 2020, n. 6, e 25 marzo 2020, n. 19, è sempre valutata, ai sensi degli articoli 1256, 1464, 1467 e 1468 del codice civile, e a decorrere dalla data di entrata in vigore degli stessi decreti attuativi, quale fattore di sopravvenuto squilibrio dell’assetto di interessi pattuito con il contratto di locazione di palestre, piscine e impianti sportivi di proprietà’ di soggetti privati.
In ragione di tale squilibrio il conduttore ha diritto, limitatamente alle cinque mensilità da marzo 2020 a luglio 2020, ad una corrispondente riduzione del canone locatizio che, salva la prova di un diverso ammontare a cura della parte interessata, si presume pari al cinquanta per cento del canone contrattualmente stabilito”. Una interpretazione costituzionalmente orientata di tale disposizione ne consente l’applicazione analogica ai rapporti di locazione aventi ad oggetto immobili destinati allo svolgimento della generalità delle attività commerciali, industriali e professionali sospese per factum principis, apparendo essa altrimenti irragionevole sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni uguali o analoghe.
In definitiva, è ragionevole ritenere, nel caso in esame, che l’importo dovuto dall’intimata per la mensilità di aprile 2020 e maggio 2020 neppure spettasse nella sua interezza. A ciò consegue che l’odierna richiesta di scioglimento del contratto di locazione ex art. 1456 c.c. appare quale “fulmine al ciel sereno” e non confacente ai canoni di buona fede oggettiva che impongono a ciascuna parte contraente l’obbligo di salvaguardare la sfera giuridica soggettiva sostanziale della controparte negoziale nei limiti di un apprezzabile sacrificio e la cui osservanza deve essere assicurata anche nella fattispecie al vaglio del presente giudizio.
In sostanza, la richiesta di declaratoria di risoluzione di diritto del contratto di locazione per causa imputabile alla conduttrice non può essere accolta sia perché l’asserito inadempimento non può ritenersi imputabile alla parte conduttrice, avendo la stessa fatto legittimo affidamento sulla prassi che i pagamenti venissero sempre preceduti dall’emissione da parte del locatore della relativa richiesta di pagamento (peraltro, nella specie, addirittura sollecitata), sia perché tale richiesta non si palesa conforme a buona fede, sia in quanto riferita ad un trimestre in relazione al quale è quantomeno dubbio che l’importo dovuto spettasse nella sua interezza, circostanza che a maggior ragione giustifica l’attesa della conduttrice di ricevere la relativa richiesta di quantificazione da parte del locatore prima di effettuarne il pagamento, magari confidando nella riduzione del quantum dovuto a seguito della sospensione per factum principis dell’attività.
Del pari infondata è la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento grave ex art. 1455 c.c..
E’ infatti noto che la valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore, in relazione alle locazioni non abitative, è affidata ai comuni criteri di cui all’art.1455 c.c., con la conseguenza che se ne deve accertare la gravità in concreto, e dunque l’idoneità a ledere in modo rilevante l’interesse contrattuale del locatore, a sconvolgere l’intera economia del rapporto, ed a determinare un notevole ostacolo alla sua prosecuzione.
Nella specie, il dedotto ritardo nel pagamento – peraltro poi avvenuto per l’intero importo – non è tale da potersi qualificare di gravità tale da determinare lo scioglimento del vincolo contrattuale, anche alla luce del fatto che l’inadempimento si è verificato durante il periodo di emergenza sanitaria causata dal cd. Covid19 e che, soprattutto, l’art. 91 del D.L. 18/2020 dispone che il rispetto delle misure di contenimento debba essere sempre valutato al fine di escludere, a sensi e per gli effetti dell’art. 1218 e 1223 c.c., la responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati od omessi adempimenti.
Quanto, infine, al III trimestre 2020 (con scadenza 1 luglio 2020), il relativo pagamento è avvenuto con bonifico in data 9 luglio 2020 con valuta di pari data (cfr. doc. 17 intimata) e, dunque, entro gli otto giorni dalla convenuta scadenza, ragione per cui il ritardo non è neppure tale da integrare gli estremi della risoluzione ex lege ai sensi dell’art. 5 del contratto.
Pertanto, considerando tutti questi elementi (importo non rilevante della morosità, durata temporanea della medesima e circoscritta ai mesi dell’emergenza sanitaria, condotta della conduttrice improntata a correttezza e buona fede, pagamento integrale del canone) il ritardato adempimento del canone relativo al II trimestre 2020 non può considerarsi grave e la domanda del ricorrente non può conseguentemente trovare accoglimento. L’esito della lite comporta la condanna di (…) alla rifusione delle spese di lite a favore di (…) che si liquidano come in dispositivo.
Infine, le considerazioni che precedono, unitamente al fatto che, essendo risultato vano il tentativo di far valere la disdetta del contratto per pacifico mancato rispetto del termine semestrale di preavviso, il locatore abbia poi omesso di quantificare il quantum dovuto per il II trimestre 2020 benché espressamente sollecitato dalla conduttrice così da ingenerare nella medesima una situazione di incertezza – peraltro avvalorata dal blocco delle attività nell’indicato trimestre determinata dal lockdown – ed, infine, l’avere agito in giudizio nonostante non fossero trascorsi neppure gli 8 giorni di ritardo previsti dall’art. 5 del contratto per il pagamento anche del III trimestre 2020 (avendo l’intimante consegnato l’atto all’Ufficiale Giudiziario per la notifica già in data 7 luglio 2020), inducono questo Tribunale a ritenere esistenti le condizioni per la condanna di (…) ai sensi dell’art. 96
c.p.c., per abuso dello strumento processuale, avendo egli agito in giudizio con mala fede o, quantomeno, colpa grave; il risarcimento va liquidato in Euro 1.000,00, pari al 20% circa delle spese processuali.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, XIII Sezione Civile, definitivamente pronunciando nella causa fra le parti di cui in epigrafe, ogni altra istanza, domanda ed eccezione disattesa, così provvede:
1) rigetta le domande svolte da (…)
2) condanna (…) alla rifusione delle spese di lite a favore di (…) che si liquidano in Euro 4.835,00 per compensi, oltre 15% spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge;
3) visto l’art. 96, 3 comma, c.p.c. condanna (…) a pagare a (…) la somma di Euro 1.000,00.
Sentenza resa ex articolo 429 c.p.c., pubblicata mediante lettura in udienza ed allegazione al verbale, per l’immediato deposito in cancelleria.
Così deciso in Milano il 18 maggio 2021.
Depositata in Cancelleria il 18 maggio 2021.
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