Corte d’Appello Roma, Sezione 3 civile Sentenza 3 febbraio 2010, n. 458

Nell’assicurazione per la responsabilità civile, l’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore è ammessa soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge (ovvero nell’ipotesi di assicurazione obbligatoria per la circolazione di veicoli e natanti, disciplinata dalla legge n. 990 del 1969, e nell’ipotesi disciplinata dalla legge n. 968 del 1977 in tema di esercizio della caccia), mentre in tutti gli altri casi l’assicuratore è obbligato solo nei confronti dell’assicurato a tenerlo indenne da quanto questi debba pagare ad un terzo cui ha provocato un danno, sicché, al di fuori delle eccezioni sopra indicate, soltanto l’assicurato è legittimato ad agire nei confronti dell’assicuratore, e non anche il terzo, nel confronti del quale l’assicuratore non è tenuto per vincolo contrattuale né a titolo di responsabilità aquiliana.

 

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Corte d’Appello Roma, Sezione 3 civile Sentenza 3 febbraio 2010, n. 458

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D’APPELLO DI ROMA

TERZA SEZIONE CIVILE

così composta:

Filippo Paone – Presidente –

Giovanni Buonomo – Consigliere –

Mauro Di Marzio – Consigliere relatore –

riunita in camera di consiglio ha pronunciato la seguente

SENTENZA

ai sensi dell’articolo 281 sexies c.p.c. mediante lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e diritto nella causa civile in un unico grado iscritta al numero 4185 del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 2006, posta in decisione all’udienza del giorno 3 febbraio 2010 e vertente

Tra

Va.Er., con domicilio eletto in Roma, viale (omissis), presso lo studio dei procuratori avvocati Ed.Po., Lu.Al., An.Po. e Is.Gi., rappresentanti e difensori per procura in atti

Parte appellante

E

Cr.En., con domicilio eletto in Roma, piazza (omissis), presso lo studio del procuratore avvocato An.Di., rappresentante e difensore per procura in atti

Parte appellata

E

Re. S.p.A., con domicilio eletto in Roma, via (omissis), presso lo studio del procuratore avvocato Gi.Ba., rappresentante e difensore per procura in atti

Parte appellata

Oggetto: appello contro sentenza n. 12.553 del 2005 del Tribunale di Roma.

FATTO E DIRITTO

– La corte ritiene l’applicabilità dell’articolo 281 sexies c.p.c. dinanzi alla corte di appello.

Difatti, l’articolo 359 c.p.c. stabilisce che nei procedimenti d’appello, tanto davanti alla corte quanto al tribunale, si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non incompatibili con le disposizioni del capo secondo del titolo terzo del libro secondo del codice di rito.

Ciò detto, l’applicabilità della norma in questione non può essere esclusa sul rilievo che l’articolo 281 sexies c.p.c. è dettato per il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, dal momento che il criterio discriminante, ai fini della definizione dell’ambito di operatività della disposizione, non è la composizione monocratica o collegiale del giudice, bensì la riconducibilità della materia del contendere all’elencazione di cause di cui all’articolo 50 bis c.p.c.

L’inapplicabilità dell’articolo 281 sexies c.p.c. in appello, d’altronde, neppure può essere desunta dalla formulazione dell’articolo 352 c.p.c., il quale disciplina la fase decisoria dinanzi alla corte, giacché tale disposizione è posta a regolare il modulo ordinario della decisione, ma, per le ragioni dette, non esclude, tramite il rinvio di cui all’articolo 359 c.p.c., la decisione a seguito di trattazione orale.

L’applicabilità dinanzi alla corte di appello della decisione ai sensi dell’articolo 281 sexies c.p.c., inoltre, si armonizza con la complessiva tendenza alla deformalizzazione che l’ordinamento manifesta e che trova recente riconoscimento nella novella dell’articolo 360 bis c.p.c., il quale ammette la ricorribilità per cassazione, in ipotesi di vizio del procedimento, nel solo caso di violazione dei principi regolatori del giusto processo.

L’ammissibilità dell’impiego dell’articolo 281 sexies dinanzi alla corte d’appello, dunque, potrebbe essere negata soltanto ove si riconoscesse che l’adozione di tale modulo decisorio arrechi un vulnus al principio del contraddittorio, la qual cosa appare tuttavia (a giudizio di questa corte) palesemente da escludere, dal momento che la norma in questione prevede la discussione orale (secondo una modalità non dissimile da quella dettata dallo stesso articolo 352 c.p.c., seppure, secondo un impianto alquanto pletorico, all’esito del deposito delle conclusionali e repliche) ed attribuisce alle parti il diritto di chiedere un rinvio per la discussione all’eventuale fine di prepararsi meglio ad essa.

Al contrario, l’impiego del più semplice modulo decisorio in questione può costituire, in particolare nel caso di appelli manifestamente fondati ovvero manifestamente infondati, utile strumento di realizzazione (o, se non altro, di minor grave violazione) del principio di ragionevole durata del processo, tenuto conto che, allo stato attuale, la durata media del giudizio di appello dinanzi a questa corte eccede di gran lunga i limiti indicati dalla CEDU.

Conclusioni opposte a quelle qui prospettate non paiono poter essere desunte dall’unico precedente di legittimità in materia (Cass. 13 marzo 2009, n. 6205, in Giur. il, 2009, 2472, con nota critica la quale svolge argomenti in buona parte coincidenti con quelli di proposti), sia perché riferito a diversa fattispecie (appello delle decisioni del giudice di pace dinanzi al tribunale), sia perché motivato sull’assunto (elaborato prima dell’introduzione dell’art. 360 bis c.p.c. e dunque perciò solo non più attuale) che l’articolo 281 sexies limiterebbe “la difesa delle parti alla sola discussione orale” tenuto conto che, come si è già detto, la discussione orale sembra poter costituire limite al dispiegamento del diritto di difesa soltanto in quelle ipotesi in cui la materia controversa, individuata attraverso l’articolo 50 bis c.p.c., richieda per la sua intrinseca delicatezza o complessità il deposito degli scritti finali, avuto riguardo al rilievo che, se così non fosse, l’articolo 281 sexies c.p.c. dovrebbe in ogni caso consentire a ciascuna parte di chiedere ed ottenere la fissazione del termine per conclusionali e repliche.

– Va.Er. ha convenuto in giudizio Cr.En. e ne ha chiesto condanna al risarcimento dei danni in tesi provocatigli a seguito di un errato intervento di adenomectonia prostatica transvescicale, il quale aveva determinato, nei giorni successivi, un intervento di splenectomia provocato da una rottura della milza verificatasi nel corso del precedente intervento.

Il Cr. ha resistito alla domanda e chiesto ed ottenuto autorizzazione a chiamare in causa il proprio assicuratore per responsabilità civile, Re. S.p.A.

Quest’ultima si è costituita difendendo le ragioni del proprio assicurato.

– Il tribunale, espletata l’istruttoria ritenuta necessaria, consistita nello svolgimento di una CTU, ha accolto la domanda, condannando il Cr. al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Euro 32.900,00, oltre accessori, a titolo di danno biologico, danno morale e danno patrimoniale determinato da spese mediche sostenute, come quantificate dall’ausiliare.

– Propone appello il Va.

Resistono il Cr. ed il suo assicuratore, il quale propone appello incidentale.

L’appello è stato posto in decisione ai sensi dell’articolo 281 sexies all’udienza del 3 febbraio 2010.

– L’appello principale contiene tre motivi.

5.1. – Il primo denuncia l’errore in cui il tribunale sarebbe incorso nel pronunciare la condanna soltanto nei confronti del Cr. e non anche del suo assicuratore, nei cui confronti essa era stata estesa.

5.2. – Il secondo motivo, poi, critica la decisione del primo giudice per aver quantificato il danno subito in misura insufficiente, per di più con scarsa motivazione, smentita invece dalle risultanze delle consulenze tecniche di parte fatte eseguire in corso di causa.

5.3. – Il terzo motivo, infine, a voler ammettere che esso possa essere così qualificato, sotto il titolo “sulla quantificazione del danno patrimoniale”, si limita a riportare le conclusioni prese nell’atto introduttivo del giudizio.

– L’appello è palesemente infondato.

6.1. – Quanto al primo motivo, è del tutto ovvio che il primo giudice non abbia accolto la domanda di condanna indirizzata dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore del danneggiante, dal momento che il primo non vanta nei confronti dell’assicuratore alcun diritto, né a titolo di responsabilità contrattuale (dal momento che l’assicuratore gli è evidentemente estraneo), né a titolo di responsabilità extracontrattuale, per ragioni che non mette neppure contro esporre. Del resto, l’appellante, nel chiedere condanna diretta dell’assicuratore, non ha neppure spiegato quale ragione giuridica avrebbe dovuto sostenere una simile pronuncia.

Al contrario, come ha chiarito la S.C.: “Nell’assicurazione per la responsabilità civile, l’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore è ammessa soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge (ovvero nell’ipotesi di assicurazione obbligatoria per la circolazione di veicoli e natanti, disciplinata dalla legge n. 990 del 1969, e nell’ipotesi disciplinata dalla legge n. 968 del 1977 in tema di esercizio della caccia), mentre in tutti gli altri casi l’assicuratore è obbligato solo nei confronti dell’assicurato a tenerlo indenne da quanto questi debba pagare ad un terzo cui ha provocato un danno, sicché, al di fuori delle eccezioni sopra indicate, soltanto l’assicurato è legittimato ad agire nei confronti dell’assicuratore, e non anche il terzo, nel confronti del quale l’assicuratore non è tenuto per vincolo contrattuale né a titolo di responsabilità aquiliana” (Cass. 20 aprile 2007, n. 9516).

6.2. – Il secondo motivo è inammissibile.

Costituisce ius reception, nella giurisprudenza della S.C., il principio secondo cui il requisito della specificità dei motivi di cui all’art. 342 c.p.c. postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico – giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono (v. a titolo di esempio tra le innumerevoli decisioni nello stesso senso, Cass. 21/11/2001, n. 14627; Cass. 24/3/2000 n. 3539). Né – ha più volte ribadito la giurisprudenza di legittimità – v’è la possibilità di rinviare l’esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l’atto d’appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo di impugnazione (v. la citata Cass. 21/11/2001, n. 14627, tra le tante). Ciò – occorre rammentare – nonostante la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, dovendo anche in tal caso essere specificamente confutate le ragioni addotte dal primo giudice (Cass. 12 aprile 2001 n. 5493, ex permultis).

L’atto d’appello, cioè, deve rivolgere alla sentenza impugnata “censure puntuali e precise” (Cass. 11 giugno 2001 n. 7849, ex multissimis), ovvero deve contenere la specificazione “sia pure informa succinta, degli errores attribuiti alla sentenza di primo grado” (Cass. 22 gennaio 2001 n. 875, tra le tante). Val quanto dire che la formulazione dell’atto d’appello deve consentire di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame, onde consentire all’appellato e al giudice di valutare esattamente la portata dell’impugnazione (Cass. 5 aprile 2001 n. 5068, tra le altre).

E, come è noto, l’inosservanza della disposizione dettata dall’art. 342 c.p.c. importa l’inammissibilità del gravame, la quale – in questo caso eccepita dalla parte appellata – è rilevabile d’ufficio.

Ebbene, nel caso in esame l’appellante si è limitato a trascrivere le considerazioni svolte dai propri consulenti tecnici di parte, le quali, tuttavia, non contengono alcuna specifica censura rivolta alla CTU, fatta integralmente propria dal primo giudice: tali considerazioni, al contrario, si risolvono in una diversa ed arbitraria valutazione del danno lamentato dal Va., danno quantificato nel 20% di invalidità permanente, a fronte del 10% riconosciuto dal CTU e dal tribunale.

Le consulenze tecniche di parte, in altri termini, si limitano ad affermare apoditticamente che l’errata esecuzione dell’intervento di cui si è detto avrebbe cagionato al Va. postumi quantificabili nella misura del 20%: ma non spiegano neppure approssimativamente perché e dove il CTU (e di lì il giudice) avrebbe sbagliato.

6.3. – Si è detto che l’atto d’appello contiene un paragrafo intitolato “sulla quantificazione del danno patrimoniale”, il quale altro non è che la riproposizione delle originali conclusioni.

Ed a tal riguardo è facile osservare che la semplice menzione di tali conclusioni non può essere configurata come motivo d’appello dotato di specificità ai sensi dell’articolo 342 c.p.c., già ricordato.

– L’appello incidentale dell’assicuratore appellato si riferisce: a) alla pronuncia di condanna, a suo carico, al rimborso delle spese di lite sostenute dall’assicurato; b) alla pronuncia di condanna, a suo carico, al rimborso del costo sostenuto dall’originario attore per l’esecuzione degli interventi chirurgici e per la degenza ospedaliera, spese dettate da sue necessità terapeutiche e non coperte dall’assicurazione.

– I motivi vanno disattesi.

8.1. – Quanto al primo, dopo aver rammentato che la sentenza impugnata ha condannato l’assicuratore a rimborsare al Cr. le spese di lite dal medesimo sostenute, è agevole osservare che il riferimento svolto dall’appellante incidentale alle condizioni generali del contratto di assicurazione – secondo cui il suo assicuratore “non riconosce peraltro le spese incontrate dal contraente per legali o tecnici che non siano stati da essa designati” – è del tutto fuor d’opera, dal momento che la pronuncia è fondata non già sulla previsione contrattuale, ma sul principio della soccombenza (si veda l’ultima parte della motivazione), ritenuta dal primo giudice, ai sensi dell’articolo 91 c.p.c. Sicché la ratio decidertndi posta a sostegno della statuizione non è stata neppure sfiorata.

8.2. – Quanto al secondo motivo, poi, il primo giudice ha quantificato l’importo dovuto dall’assicuratore all’assicurato in dipendenza della somma riconosciuta a titolo risarcitorio al Va., di guisa che l’accoglimento dell’appello incidentale, sul punto, avrebbe richiesto la dimostrazione, neppure tentata, che le poste attribuite al danneggiato non fossero state riconosciute o non potessero esserlo a titolo di risarcimento del danno.

Né rileva alcunché, per i fini dell’accoglimento del gravame, la distinzione avanzata dall’assicuratore tra “danno” (oggetto di rimborso) e “costo” (non oggetto di rimborso), dal momento che anche il costo di un intervento rivelatosi dannoso, come tale privo di giustificazione sinallagmatica, rifluisce nell’ambito del danno.

– Le spese del grado, nei rapporti tra l’appellante principale e gli appellati, seguono la soccombenza e, vertendosi in ipotesi di rigetto, vanno liquidate in ossequio al principio del disputatimi (Cass. Sez. U, 11 settembre 2007, n. 19014). Per il resto, quanto ai rapporti tra l’assicuratore e il Cr. possono integralmente compensarsi, tenuto conto del marginale rilievo dell’appello incidentale.

PER QUESTI MOTIVI

Definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Va.Er. nei confronti di Cr.En. e Re. S.p.A. contro la sentenza resa tra le parti dal tribunale di Roma, nonché sull’appello incidentale spiegato dall’assicuratore appellato, ogni altra conclusione disattesa, così provvede:

– rigetta l’appello principale e quello incidentale;

– condanna la parte appellante al rimborso, in favore di ciascuna delle parti appellate, delle spese sostenute per questo grado del giudizio, liquidate, quanto ad ognuna di esse, in complessivi Euro 7.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi e Euro 2.800,00 per diritti.

Così deciso in Roma il 3 febbraio 2010.

Depositata in Cancelleria il 3 febbraio 2010.

 

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.