il direttore dei lavori per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam in concreto”. Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al committente.

Tribunale|Milano|Sezione 1|Civile|Sentenza|14 aprile 2020| n. 2408

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO

PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Martina Flamini ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 25761/2017 promossa da:

EL.CE. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. DO.RO. e dell’avv. NO.PA. (…), elettivamente domiciliata in BRESCIA, CORSO (…) presso il difensore avv. DO.RO.

ATTORE

contro

GI.BR. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. MA.GI. (…), elettivamente domiciliato in MILANO, CORSO (…) presso il difensore

CONVENUTO

IN FATTO E IN DIRITTO

Fatti di causa.

Con atto di citazione, notificato sia a mezzo postale che via pec, El.Ce. ha convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, l’arch. Gi.Br. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’inesatto adempimento degli obblighi professionali sullo stesso gravanti.

Parte attrice ha dedotto: che, nel 2002, la signora Ce. decideva di ricavare, all’interno del proprio immobile sito in Milano, Via Ripa di Porta Ticinese n. 55, acquistato nel 1987, un’unità a fini abitativi nel sottotetto, affidandosi, per la progettazione nonché per ogni necessaria autorizzazione e per l’espletamento di ogni connessa pratica ed incombenza, all’arch. Gi.Br., di Milano, il quale assumeva contestualmente anche l’incarico di direttore degli eseguendi lavori;

ottenuti l’autorizzazione paesaggistica, il consenso dell’assemblea condominiale al recupero del sottotetto, presa visione del “Capitolato e computo metrico” delle opere da realizzare predisposto e consegnatole dall’arch. Br., e, successivamente, del “Preventivo definitivo” di spesa, nonché depositata al competente Ufficio del Comune di Milano la D.I.A., iniziavano i lavori;

l’inizio dei lavori era previsto per il 25 maggio 2004 e la loro conclusione per la successiva metà di novembre; la realizzazione delle opere veniva affidata alla Edilomazzo S.r.l.; dall’autunno del 2004 i lavori subivano vari rallentamenti, sia a causa del deteriorarsi dei rapporti con l’impresa esecutrice dei lavori sia per alcune irregolarità nella presentazione della documentazione amministrativa da parte dell’arch. Br. (in particolare con riferimento ad una variante di progetto e ad una nuova autorizzazione paesaggistica);

per tali motivi la signora Ce. si rivolgeva all’arch. Bo. per comprendere lo stato delle cose e per il termine dei lavori; inoltre l’attrice incaricava l’ing. Giacomo De. per il collaudo statico della soletta di divisione delle due unità, poste al primo piano e nel sottotetto, di cui era composto il complesso immobiliare di proprietà di El.Ce.;

il professionista da ultimo incaricato constatava uno stato dei luoghi del tutto difforme da quello attestato negli atti e nei progetti ed in condizioni di precaria stabilità tali da rendere indispensabili una serie di interventi rilevatisi della massima urgenza, propedeutici al collaudo e da eseguire, altresì, nel rispetto del termine di consegna dell’unità immobiliare posta al primo piano che, nel frattempo, El.Ce. aveva deciso di vendere; a seguito di ulteriori controlli sullo stato delle opere eseguite nell’immobile sovrastante, venivano riscontrate lesioni sulle parti divisorie della mansarda e gravi problematiche alle strutture di copertura;

la signora Ce. quindi faceva eseguire i lavori per la messa in sicurezza dell’immobile; inoltre i signori Tu. – Ge., proprietari della confinante porzione di sottotetto, evocavano avanti al Tribunale di Milano l’attrice per violazione del disposto dell’art. 907 c.c., di cui El.Ce. non era neppure stata resa edotta dall’arch. Br.;

dopo la sentenza di primo grado, sfavorevole per l’odierna attrice, la controversia veniva composta con atto transattivo; nel 2016 uno dei proprietari delle sottostanti unità immobiliari avanzava inoltre richiesta di indennità ex art. 1127 c.c., che non era stata prospettata alla signora Ce. dall’arch. Br.;

da tali circostanze parte attrice deduce quindi l’inadempimento dell’arch. Br., chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni patiti, consistenti nei compensi pagati da El.Ce. per il riscontro e il rimedio dei vizi dell’opera, nella somma corrisposta in forza della transazione intervenuta con i vicini e nei costi della procedura di mediazione inutilmente intrapresa con l’arch. Br., nonché nei disagi subiti dall’attrice per il protrarsi dei lavori, con rivalutazione monetaria e interessi fino al saldo.

Si è costituito l’arch. Gi.Br., contestando le domande di parte attrice e deducendo, in particolare: che la costruzione progettata e realizzata non avrebbe violato la normativa sulle distanze, in forza della legge sui sottotetti vigente all’epoca dei fatti;

l’arch. Br. avrebbe inoltre comunicato alla signora Ce. gli obblighi gravanti sulla medesima ai sensi dell’art. 1127 c.c.;

il convenuto nega qualsivoglia responsabilità in ordine al ritardo nei lavori, che sarebbe da imputare alla difficoltà dei medesimi, alla necessità di assicurare la contemporanea utilizzazione dei locali posti al primo piano da parte dell’associazione culturale Sa., all’ostruzionismo delle imprese esecutrici, nonché al comportamento della committente, che avrebbe deciso delle modifiche in corso d’opera – poi ritrattando, in particolare, quella riguardante due lucernari – e che avrebbe fatto confusione prima con i pagamenti alle imprese esecutrici e poi incaricando l’arch. Bo. per svolgere le residue incombenze di competenza dell’arch. Br.;

il convenuto inoltre eccepisce l’intervenuta decadenza e prescrizione dell’azione risarcitoria di parte attrice, afferma che l’arch. Br. sarebbe stato incaricato solo della progettazione architettonica e non di quella strutturale e di aver adempiuto, secondo diligenza professionale, ai propri obblighi contrattuali; infine, l’arch. Br. contesta la quantificazione dei costi sostenuti dall’attrice per la messa in sicurezza dell’immobile.

Concessi i termini per le memorie di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c., acquisiti i documenti prodotti ed espletata una c.t.u., con relativa integrazione, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza, previa concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

Accertamento della responsabilità.

Le domande di parte attrice sono parzialmente fondate e possono trovare accoglimento nei limiti che seguono.

Preliminarmente, deve rilevarsi la tardività, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., delle eccezioni di decadenza e prescrizione sollevate dal convenuto, considerato che trattasi di eccezioni in senso stretto e che la costituzione è avvenuta oltre il termine di 20 giorni prima dell’udienza.

Per quanto riguarda la responsabilità dell’arch. Br., alla fattispecie in esame deve trovare applicazione il costante orientamento della Suprema Corte, a mente del quale il creditore che agisca in giudizio per l’inadempimento del debitore deve solo fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto ed incombe sul debitore convenuto l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento dell’obbligazione (Cassazione civile sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533; cfr. altresì Cassazione civile sez. III, 28 gennaio 2002, n. 982; Cassazione civile sez. lav., 16 luglio 1999, n. 7553; Cassazione civile sez. I, 15 ottobre 1999, n. 11629; Cassazione civile sez. II, 5 dicembre 1994, n. 10446; Cassazione civile, sez. II, 17 agosto 1990 n. 8336; Cassazione civile, sez. II, 31 marzo 1987 n. 3099).

Nel caso di specie, in ordine alla fonte delle obbligazioni che parte attrice ritiene essere state non esattamente adempiute dal convenuto, non è contestato che la signora Ce. abbia conferito un incarico professionale all’arch. Br. in ordine alla progettazione dell’intervento edilizio nonché di direttore dei lavori e che questi siano stati accettati dal professionista.

È invece contestata la qualifica di direttore dei lavori con riferimento alla parte strutturale dell’opera: secondo la ricostruzione del convenuto, l’arch. Br. avrebbe assunto tale qualifica solo con riferimento alla parte progettuale dell’opera.

Sul punto, si deve evidenziare che, dalla documentazione in atti, l’arch. Br. risulta essere stato nominato come direttore lavori generale delle opere. In assenza di un direttore lavori specifico per le opere strutturali, tale incarico viene assunto dal direttore lavori generale (cfr. doc. 9 attoreo). Tale circostanza è ribadita anche dal certificato di idoneità statica, che lo indica espressamente come direttore dei lavori delle opere strutturali (cfr. doc. 52 attoreo).

È peraltro principio giurisprudenziale consolidato che “il direttore dei lavori, quale rappresentante del committente, deve avere le competenze necessarie a controllare la corretta esecuzione delle opere da parte dell’appaltatore e dei suoi ausiliari, essendo altrimenti tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare, sin dall’origine, le prestazioni promesse, sicché è responsabile nei confronti del committente se non rileva in corso d’opera l’inadeguatezza delle opere strutturali, sebbene affidate ad altro professionista, salvo che dimostri che i vizi potevano essere verificati solo a costruzione ultimata” (Cass. Sez. III, sent., 13/04/2015, n. 7370).

Dagli atti di causa, non risulta che l’arch. Br. abbia delimitato le prestazioni promesse alla signora Ce., escludendo la direzione della parte strutturale dell’opera, né che i vizi strutturali potessero essere dal medesimo verificati solo al termine dei lavori; da ciò deriva che egli ha precipuamente assunto anche l’obbligazione di vigilare sul corretto svolgimento anche della parte strutturale dei lavori, senza che rilevi il fatto che la stessa sia stata materialmente eseguita da altro professionista. Ulteriore conferma può ravvisarsi nel doc. 11 prodotto dallo stesso convenuto, nella parte in cui espressamente prevede, tra le attività in forza delle quali è richiesto il compenso, anche la direzione dei lavori, senza alcuna specificazione o limitazione (lettera G).

Così delimitato l’impegno contrattuale assunto dall’arch. Br. nei confronti della signora Ce., deve a questo punto verificarsi l’inadempimento del convenuto alle obbligazioni sullo stesso gravanti, lamentato da parte attrice.

Orbene, dalla relazione di c.t.u. – pienamente condivisa da questo giudice perché frutto di un attento ed analitico esame dei documenti e dello stato dei luoghi – depositata a firma dell’arch. Ro.Be., è emerso che:

– l’arch. Br. era investito dell’incarico di direttore dei lavori generale e successivamente, pur in mancanza di formale rinuncia all’incarico, il medesimo è stato di fatto sostituito dalla committenza con tre diversi professionisti (l’arch. Bo. in qualità di progettista, l’ing. De. in qualità di strutturista e l’ing. Ga. quale collaudatore);

– le opere strutturali progettate sotto la direzione lavori dell’arch. Br. prevedevano una struttura del solaio in cemento armato; tuttavia, “il solaio prima del rinforzo si presentava con una struttura metallica composta da un’unica orditura di travetti da muro a muro”;

– con riferimento alla copertura, prima dei lavori di rinforzo successivamente eseguiti dalla committente, dall’esame del materiale fotografico agli atti, il c.t.u. ha rilevato che “le carpenterie non sono adeguatamente collegate, sono di fatto semplicemente “puntate”; inoltre “essendo stata montata al contrario, la lamiera grecata lavora ampiamente sopra la tensione ammissibile indicata dalla UNI EN10147 per la data tipologia di prodotto. Anche la deformazione risulta essere molto importante e fuori dai limiti normativi (L/250 contro L/160)”;

– pertanto, dopo l’esecuzione delle opere strutturali sotto la direzione dell’arch. Br., “sia il solaio sottotetto che la copertura necessitavano di interventi di adeguamento dovuti principalmente ad una cattiva esecuzione delle opere fatta in modo approssimativo, con materiali sbagliati e posati in modo non adeguato””;

– in ordine alla regolarità amministrativa dell’opera, l’unico inadempimento dell’arch. Br. risulta la mancata presentazione di fine lavori e il mancato collaudo, riconosciuti da ambo le parti; tale adempimento risulta affidato ad altri professionisti in assenza di formale rinuncia all’incarico da parte dell’arch. Br..

Con riferimento alla responsabilità del convenuto quale direttore dei lavori si osserva quanto segue.

In via generale, non pare inutile ricordare che il direttore dei lavori per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam in concreto”. Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al committente (v. Cass. 24-4-2008 n. 10728; Cass. 20/7/2005 n. 15255; Cass. 15/10/2013 n. 23350).

Deve pertanto affermarsi che il convenuto abbia adempiuto in modo inesatto alle obbligazioni sullo stesso gravanti in riferimento alla parte strutturale dell’opera, non avendo il medesimo vigilato sull’esecuzione della medesima in conformità al progetto originario del solaio e della copertura, avvenuta con posa di materiali errati e mediante un errato posizionamento delle componenti.

Inoltre, l’arch. Br. non ha adempiuto alle obbligazioni su di lui contrattualmente gravanti con riferimento alla mancata informazione alla committente in ordine alla possibile violazione della normativa in materia di distanze.

L’accertamento della violazione in questione (richiesto implicitamente dall’attrice sin dall’atto di citazione mediante la domanda di accertamento della responsabilità dell’arch. Br. derivante dalla “violazione della normativa codicistica in tema di distanze legali che ha originato il contenzioso intercorso con la proprietà confinante Tu. – Ge.”) deriva da quanto affermato dal Tribunale di Milano nella sentenza n. 14770/2010 resa nel proc. n. 26805/03 R.G. (doc. 27 di parte convenuta) nonché dalle difese dell’arch. Br. sul punto.

Nel citato provvedimento, infatti, il Giudice ha affermato che “a distanza inferiore di 1 m dal confine, si trovano una canna fumaria, un torrino di esalazione, le tubazioni del gas, una presa d’aria per la caldaia, gli scarichi e le tubazioni di adduzione che alimentano il bagno e la cucina (…) inoltre i lucernari di trovano a distanza di metri 2,40 dal confine, mentre i comignoli sono posti a metri 0,25” (pag. 2 della sentenza).

Vero è che la sentenza in questione non fa stato, ai sensi dell’art. 2909 c.c., nei confronti di soggetti terzi al giudizio, tra cui l’arch. Br.; tuttavia, come da consolidato orientamento giurisprudenziale, la stessa costituisce in ogni caso un documento, che il giudice civile è tenuto ad esaminare e dal quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti.

In particolare, è stato condivisibilmente affermato che nel giudizio civile il riferimento ad una sentenza resa in altro procedimento “è da reputarsi legittimo ogniqualvolta il giudice, riproducendo o richiamando nella propria sentenza gli elementi essenziali dell’altra motivazione dimostri non solo di volere far propria tale motivazione, ma anche di avere esaminato le censure contro di essa proposte dalla parte e di averle ritenute infondate per motivi indicati specificamente, in modo da consentire il controllo delle ragioni logiche e giuridiche della decisioni” (tra le tante, Cass. 15 febbraio 2001, n. 2200; Cass. Sez. II, 13 agosto 2018, n. 20719).

Ebbene, nel presente giudizio, in ordine all’effettiva sussistenza della violazione delle norme civilistiche in materia di distanze, l’arch. Br. si è difeso limitandosi ad affermare che la legge dei sottotetti allora vigente consentiva di derogare dalle distanze dei confini (doc. 5 di parte convenuta), come sarebbe confermato dalla circolare esplicativa del comune nel 2002 (doc. 6 di parte convenuta). Tale difesa si rivela, tuttavia, non pertinente, alla luce del fatto che la normativa richiamata prevedeva in ogni caso il necessario rispetto della distanza minima di 3 metri, che risulterebbe comunque violata, atteso che tutti gli elementi ritenuti dal Tribunale di Milano rilevanti per la violazione si troverebbero ad una distanza inferiore.

Può quindi ritenersi sussistente la violazione della normativa in materia di distanze.

In ordine alla responsabilità dell’arch. Br. in ordine a tale violazione deve richiamarsi il principio di diritto secondo cui, attesa la diligenza professionale richiesta all’architetto, “il fatto illecito, consistente nella realizzazione di un edificio in violazione delle distanze legali rispetto al fondo del vicino, è legato da un nesso causale con il comportamento del professionista che ha predisposto il progetto e diretto i lavori” (Cass. Sez. II, 30/01/2003, n. 1513).

Come affermato da giurisprudenza risalente ma condivisibile, il cliente non può imputare alcunché al professionista, progettista e direttore dei lavori, solo “quando sia stato lui stesso a chiedere la progettazione in un determinato modo e quando, essendo nella possibilità di controllare agevolmente il rispetto delle più comuni norme di legge e di regolamentari in tema di distanze, abbia accettato, facendo acquiescenza al comportamento del professionista stesso, il rischio di una lite con il vicino confinante” (Cass. n. 5296 del 07/12/1977).

La causa di esonero tuttavia non è ravvisabile nel caso di specie. Va infatti escluso che la signora Ce. fosse in grado di controllare in modo agevole il rispetto della normativa in materia di distanze: nella specie non si trattava di un mero controllo di fatto, ma anche di valutazioni di carattere giuridico, delle quali l’attrice non poteva avere competenza. Invero, neppure risulta che l’arch. Gr. abbia effettivamente informato la signora Ce. di tale possibilità.

Al riguardo, parte convenuta afferma di aver reso edotto la committente di tale circostanza, ma l’assunto è rimasto del tutto sfornito di prova.

In conclusione, tutti gli elementi sopra evidenziati consentono di ritenere che il convenuto non abbia fornito la prova di aver esattamente adempiuto alle obbligazioni sul medesimo gravanti per non aver depositato fine lavori e collaudo pur in assenza di formale rinuncia all’incarico, per non aver vigilato, in qualità di direttore dei lavori generale, sulla corretta esecuzione dei lavori strutturali, che si sono rivelati viziati, nonché per non aver edotto l’attrice in merito al mancato rispetto della normativa in materia di distanze.

Danni risarcibili.

Accertato l’inadempimento dell’arch. Br., con riferimento ai danni risarcibili si osserva quanto segue.

Dalla relazione di c.t.u. è emerso come, a seguito dell’esecuzione non conforme alle regole dell’arte dei lavori strutturali, “sia il solaio che la copertura necessitavano di adeguamento dovuti principalmente ad una cattiva esecuzione delle opere fatta in modo approssimativo, con materiali sbagliati e posati in modo non adeguato” e che, prima dell’esecuzione di tali interventi da parte di Se. su commissione della signora Ce., “all’interno dell’immobile erano presenti numerose fessurazioni di origine strutturale”.

Il c.t.u. ha ritenuto, condivisibilmente, che “tutti gli interventi eseguiti (…) sono conseguenza dell’inadempimento del convenuto ai suoi obblighi professionali”.

Le spese documentate dall’attrice per l’esecuzione di tali lavori ammontano complessivamente ad Euro 124.565,80, di cui Euro 35.064,76 per compensi a professionisti (arch. Bo., Ing. Ga. e Ing. De.), Euro 86.900,00 per costi d’impresa (Se.) ed Euro 2.601,04 per costi d’indagine.

In ordine alla congruità dei costi sostenuti dall’attrice, il c.t.u., sulla base della relazione dell’ausiliario ing. Lo., ha rilevato una significativa discrepanza tra i costi effettivamente sostenuti per consolidamento strutturale e spese tecniche dei professionisti rispetto a quelli normalmente applicati sul libero mercato, in particolare rilevando che “il solaio del sottotetto è stato ripristinato attraverso una corretta progettazione ed esecuzione dei lavori seppure con un approccio molto cautelativo che ha comportato un raddoppio del consumo di acciaio. Tale approccio ha fatto lievitare inutilmente i costi”.

In sede di integrazione, il c.t.u. ha rilevato come “la differenza di costi computata secondo la Camera di Commercio dipende unicamente dall’approccio progettuale del singolo professionista, che come già esposto in relazione, può contenere un margine di discrezionalità notevole, che chiaramente incide sui costi. Ma un approccio conservativo non può in questo caso considerarsi sbagliato (…).

L’approccio conservativo è una scelta progettuale che ha risposto alle esigenze dell’opera eseguita”. Inoltre, ha altresì chiarito come il listino della Camera di Commercio “pur essendo un riferimento per gli operatori del settore non impone che le trattative private debbano attenersi ad esso”. Con osservazione condivisibile, il c.t.u. ha altresì rilevato che “nelle circostanze del caso non si può escludere che una situazione d’urgenza abbia fatto lievitare i prezzi, il tempo è un costo. A quanto risulta il solaio andava consolidato in tempi brevi”.

Alla luce del corretto percorso argomentativo sviluppato, le conclusioni del c.t.u., secondo cui “lo scrivente ha ritenuto opportuno quantificare le somme il cui pagamento è documentato in atti ed esposte sulla base di un progetto che se pur economicamente oneroso è risultato congruo rispetto ai vizi riscontrati”, devono essere condivise.

Anche gli esborsi effettuati dall’attrice con riferimento al contenzioso tra la signora Ce. e i signori Sa.Tu. e Pa.Ge., definito con la transazione di cui al doc. 40 di parte attrice, sono da ricondurre causalmente all’inadempimento dell’arch. Br. (sulla responsabilità del medesimo per la violazione della disciplina delle distanze di cui all’art. 907 c.c. si richiama quanto sopra esposto).

Le spese affrontate dalla signora Ce. per la definizione della lite, che dovranno essere rifuse alla stessa dall’arch. Br. in quanto danno emergente derivante dal suo inadempimento, sono pari a totali Euro 45.289,08 (cfr. schema riepilogativo di cui a pag. 30 della c.t.u.).

Non è invece fondata la richiesta di risarcimento di parte attrice relativamente ai danni da questa asseritamente subiti per i disagi derivanti dal protrarsi dei lavori, quantificati in Euro 30.000,00.

La signora Ce. non ha provato di aver subito alcun danno risarcibile come conseguenza immediata e diretta del parziale adempimento delle obbligazioni gravanti sul professionista.

Non pare superfluo ricordare che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il soggetto inadempiente è obbligato a risarcire i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta non esattamente adempiente e, in particolare, a risarcire il creditore per la perdita subita consistente nella perdita di valori economici già esistenti nel patrimonio del danneggiato e per il mancato guadagno, ossia la mancata acquisizione, da parte del danneggiato, di valori economici (cc.dd. danno emergente e lucro cessante).

La dottrina e la giurisprudenza chiariscono, altresì, che tra inadempimento e danno è necessario che sussista un nesso di causalità, escludendo dal risarcimento le conseguenze dell’inadempimento che non ne siano immediatamente dirette. Il danno, insomma, deve essere stato cagionato in modo diretto dall’inadempimento e non da altre cause.

A tali considerazioni deve poi aggiungersi che il danno è da considerarsi causato dall’inadempimento se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo e sempre che sia configurabile come conseguenza normale e naturale dell’inadempimento.

Nel caso in esame la signora Ce. si è limitata ad allegare, in modo del tutto generico, che la medesima avrebbe subito disagi a causa del protrarsi dei lavori, senza specificare alcunché né in merito alla consistenza di tali disagi né, tanto meno, con riferimento al criterio di quantificazione monetaria dei medesimi. Sul punto, neppure può rilevare il disagio che avrebbero subito il personale e la clientela dell’associazione Sa., rimasto, nell’allegazione, del tutto generico, con conseguente impossibilità di valutarne l’effettiva sussistenza, il collegamento eziologico con l’inadempimento dell’arch. Br., nonché la consistenza economica.

La domanda in esame, del tutto sfornita di prova sia in merito all’an che al quantum, non può pertanto che esser rigettata.

L’arch. Br., in conclusione, deve essere condannato al pagamento, in favore dell’attrice, della complessiva somma di Euro 169.854,88 (somma calcolata all’attualità e dunque senza la necessità di operare alcuna rivalutazione).

Per quanto riguarda gli interessi – i quali consistono in una mera modalità liquidatoria del possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso, solo nei casi in cui la rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che deve esser posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo – atteso che gli attori non hanno dedotto l’esistenza di un ulteriore danno da ritardo, gli stessi possono essere riconosciuti solo nei limiti degli interessi legali decorrenti dalla data della presente pronuncia sino al soddisfo.

La domanda del convenuto diretta ad ottenere la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., stante l’accertato inadempimento del convenuto, deve essere rigettata per insussistenza dei requisiti.

Spese.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Le spese di c.t.u, già liquidate con separato provvedimento, devono essere poste definitivamente a carico del convenuto.

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda, istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

a) Accoglie la domanda di parte attrice e, per l’effetto, condanna l’arch. Gi.Br. al pagamento in favore di El.Ce., a titolo di risarcimento dei danni, della somma di Euro 169.854,88, nonché degli interessi legali dalla sentenza al saldo;

b) Condanna il convenuto al pagamento, in favore di parte attrice, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 12.133,00, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, oltre Euro 786,00 (per il contributo unificato e la marca da bollo) ed Euro 61,00 per spese di mediazione;

c) pone definitivamente a carico del convenuto le spese di c.t.u., già liquidate con separato provvedimento.

Così deciso in Milano il 23 marzo 2020.

Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2020.

Per ulteriori approfondimenti in merito al contratto di appalto, con particolare rifeferimento alla natura agli effetti ed all’esecuzione si consiglia il seguente articolo: aspetti generali del contratto di appalto

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Avv. Umberto Davide

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